Era il partito della “vocazione maggioritaria”. È diventato il partito dell’Aventino. Anzi, meglio ricorrere a una metafora dalla storia meno nobile. Il Pd butta la palla in tribuna. Lo fa in politica estera come in economia e sulle questioni sociali. Balbetta e insegue il M5s di Giuseppe Conte. E così Elly Schlein fa il copia e incolla dai programmi dei grillini anche sulle riforme istituzionali. Eppure il percorso che ha portato alla nascita dei dem nasce dalla scintilla dell’Ulivo. Una coalizione che nel 1996, nella cosiddetta tesi numero 1, proponeva già il premierato. Ecco un passaggio del programma di Romano Prodi, scritto ben ventisette anni fa: “Appare opportuna nel nostro Paese l’adozione di una forma di governo centrata sulla figura del Primo ministro investito in seguito al voto di fiducia parlamentare in coerenza con gli orientamenti dell’elettorato”. La prima tesi dell’Ulivo del 1996 successivamente si fa ancora più esplicita: “È da prevedere, sulla scheda elettorale, l’indicazione – a fianco del candidato del collegio uninominale – del partito o della coalizione alla quale questi aderisce e del candidato premier da essi designato”. E ancora, il centrosinistra di quasi trent’anni fa immaginava qualcosa di molto simile alla cosiddetta “norma anti-ribaltone” di cui si parla in questi giorni per evitare alchimie di Palazzo e cambi di maggioranza in corsa, magari con lo stesso premier, come accaduto proprio con il passaggio tra il primo e il secondo dei governi guidati da Giuseppe Conte. Il programma ulivista del 1996 parlava di una “convenzione costituzionale secondo la quale un cambiamento di maggioranza di Governo richieda di norma e comunque in tempi brevi lo scioglimento della Camera politica e il ricorso a nuove elezioni. Viceversa resta possibile la sostituzione del Premier all’interno della medesima maggioranza col metodo della sfiducia costruttiva”.

Il preambolo sulla storia del centrosinistra è necessario per comprendere l’atteggiamento del Pd di fronte alle proposte della maggioranza sulle riforme istituzionali. Schlein rifiuta di sedersi al tavolo e, appunto, lancia la palla in tribuna prima ancora del fischio d’inizio della partita. La premessa dei dem sulle riforme è stata già enunciata dalla segretaria a maggio scorso, quando la premier Giorgia Meloni ha ricevuto a Palazzo Chigi i leader di tutti i partiti in cerca di punti di contatto sull’assetto della nostra democrazia. In occasione di quel primo vero faccia a faccia con la presidente del Consiglio, Schlein si è presentata chiudendo già la porta a ogni dialogo. “No all’elezione diretta del premier o del Presidente della Repubblica”, il mantra del Pd. O almeno di una parte dei democratici. Dato che la componente più “riformista” del partito mugugna e avrebbe preferito un approccio non basato su un no a prescindere al premierato. Eppure non si levano voci in chiaro dall’interno contro la strategia aventiniana della dirigenza del Nazareno. Schlein tre giorni fa, dall’assemblea nazionale di Azione, ha suonato lo stesso spartito dei mesi precedenti. “Siamo andati a incontrare il governo ma siamo andati chiarendo la nostra proposta: noi non siamo disponibili all’elezione diretta del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio”, ha scandito la segretaria. Schlein poi ha preferito cambiare discorso, tirando in ballo il Quirinale: “Se c’è stata in questi anni un’istituzione che ha salvaguardato la credibilità e la stabilità è stata proprio il presidente della Repubblica le cui prerogative non accetteremo vengano intaccate”. Nel giorno in cui la proposta del ddl sulle riforme costituzionali arriva in una riunione di maggioranza a Palazzo Chigi, i big del Pd si astengono da ogni commento. Il compito di ripetere il mantra spetta a Dario Parrini, senatore e vice presidente della Commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama. “In nessuna Repubblica parlamentare al mondo, e ci sarà una ragione, vige l’elezione diretta del primo ministro. Se finissimo lì, non avremmo la Terza Repubblica. Avremmo una Triste Repubblica, il premierato stravolge gli equilibri della Costituzione”, twitta Parrini. Per il senatore Andrea Giorgis, capogruppo in Commissione Affari Costituzionali al Senato, con il premierato “la democrazia si riduce alla scelta del capo”. Obiezioni del tutto sovrapponibili a quelle che esprime il M5s di Conte.

Eppure, nonostante il cambio della guardia e lo spostamento a sinistra della segreteria, quasi la metà degli elettori del Pd vede di buon grado l’elezione diretta del premier o del Capo dello Stato. Questo è il dato che emerge da un sondaggio di Ilvo Diamanti pubblicato ieri da La Repubblica, secondo cui il 45% di chi vota per il Pd sarebbe favorevole all’introduzione dell’elezione diretta. Sul tema era confuso anche il programma dei dem per le elezioni politiche dell’anno scorso, che parlava fumosamente di “rafforzare e razionalizzare la forma di governo parlamentare”. Dalla vocazione maggioritaria alla palla in tribuna.