L'intervista
Antonia Arslan: “L’Armenia è stata colpita dal genocidio, ma si parla solo di Gaza. L’accordo con l’Azerbaijan? C’è un agnello e un leone”
«Così si permette all’Azerbaijan di fare quello che vuole». Il trattato di pace firmato l’8 agosto, tra Armenia e Azerbaijan, di fronte a Donald Trump, è un chiaro tentativo del premier armeno, Nikol Pashinyan, di sopravvivere a qualunque costo. Antonia Arslan, già docente all’Università di Padova, ma ancor più scrittrice e profonda studiosa dell’Armenia e del genocidio del suo popolo, osserva i recenti accordi tra Yerevan e Baku e ne approfitta per riflettere sugli altri conflitti tra Medio Oriente e Asia centrale. Da ultimo Gaza.
Professoressa, regge l’accordo?
«Mi viene in mente quello che si diceva già due anni fa, con la fine degli scontri sul campo. In un qualsiasi tipo di pace tra l’agnello e il leone, è quest’ultimo a rimandare solo di un po’ il banchetto. Oggi, la sproporzione di forze tra i due Paesi è incolmabile. A decidere se ci sarà la pace sarà solo uno».
Immagino l’Azerbaijan, che fa la parte del leone.
«Certo che sì. Baku è supportato dalla Turchia, che ha tutto l’interesse che si faccia il cosiddetto “corridoio di Zangezur” (il collegamento che l’Azerbaijan rivendica attraverso il sud dell’Armenia, per unire la sua parte occidentale all’exclave di Nakhchevan e che, a seguito dei recenti accordi raggiunti alla Casa Bianca, potrebbe prendere il nome di Trump route for international peace and prosperity, Tripp, ndr). È questo il passaggio via terra che finora manca ad Ankara tra il proprio territorio e quello dell’Azerbaijan, suo cugino per etnia e fede. Solo in parte, però. Visto che i turchi sono sunniti e gli azeri sciiti. Grazie allo Zangezur, la Turchia realizzerebbe il suo sogno di collegarsi agli Stati musulmani ex-sovietici dell’Asia centrale: Uzbekistan, Tajikistan, eccetera».
Un ritorno all’impero ottomano che penetra nel cuore dell’Asia in funzione antirussa.
«Nel Nakhchevan, gli azeri, amici dei turchi e sotto l’egida degli Usa, hanno fatto un’operazione di “de-armenizzazione” senza precedenti. Hanno cancellato una storia di tredici secoli. Se lei sorvola quel territorio, dove un tempo c’erano chiese e luoghi di culto cristiani, oggi vede solo l’erba. Il Nakhchevan oggi è azero».
Ma da tutto questo, Trump cosa ci guadagna?
«Trump fa il suo mestiere. Cerca di ottenere un vantaggio strategico prima di tutto in funzione anti-Iran. L’Azerbaijan è il primo alleato di Israele nella regione. Baku è armata da Israele. È il suo unico appoggio in campo musulmano. Trump non poteva non tenere conto di questo».
Un paradosso, vista l’alleanza tra Baku e Ankara. Come anche la rivalità tra quest’ultima e Israele.
«Sono movimenti tellurici difficili da comprendere, in Occidente».
Però anche l’Armenia è amica di Israele. Come sta affrontando questo paradosso?
«Sul terreno, questo si traduce in villaggi che passano di mano e confini porosi. Dieci chilometri di frontiera spostati qua, altri cinque là. I contadini armeni scappano man mano che l’esercito azero avanza. Di vittime se ne registrano poche, per fortuna. Se con questo accordo tacciono le armi e si ha uno stop a questa erosione di territorio, è già un risultato».
Resta in sospeso il discorso dei prigionieri.
«Questo è il punto più oscuro. Nelle prigioni di Baku marciscono prigionieri di guerra armeni ancora dal 2020 che Erevan non se ne occupa, sebbene abbia liberato i prigionieri azeri. Al momento, ci sono poi almeno sessanta funzionari armeni in ostaggio del governo filo-azero del Nagorno-Karabach (dopo la vittoria azera che ha provocato l’esodo di decine di migliaia di abitanti armeni dalla regione, ndr) in quanto accusati di crimini di guerra. Di questo, nell’accordo della Casa Bianca, non se ne parla».
Pashinyan rinuncia a tutto questo in cambio di cosa?
«Della popolarità perduta. Il premier armeno vantava un sostegno popolare fortissimo (ancora nelle elezioni del 2018, era stato eletto con una maggioranza del 70,4%, ndr). Ora questo consenso è crollato. Pashinyan vuole a tutti i costi un accordo con l’Azerbaijan. Al punto da attaccare perfino la Chiesa armena, collante millenario del Paese. Un’ingerenza nelle questioni religiose che gli è proibita perfino dalla Costituzione».
Così però rischia di doversi buttare tra le braccia di Putin pur di sopravvivere?
«No, perché Pashinyan è salito al potere puntando su una rottura con Mosca e un avvicinamento all’Unione europea. Una scommessa per certi versi persa in partenza».
Perché?
«Perché Bruxelles non muoverà mai un dito per l’Armenia. Il Paese è piccolo. Una volta e mezza il nostro Veneto. È lontano. Né la Nato né l’Ue interverrebbero a suo fianco».
Un isolamento già vissuto e che ora è di facile accostamento con Israele.
«Da decenni, autorevoli studiosi affiancano il destino comune di ebrei e armeni. Questi ultimi, già nella stampa tedesca di fine Ottocento, venivano spesso chiamati “gli ebrei d’Oriente”. Isolati e destinati alla catastrofe. In qualche modo, i primi a subirla nel Novecento».
E qui arriviamo al punto: la parola «genocidio». Oggi è oggetto di strumentalizzazioni. La Shoah e il genocidio armeno rispondono a caratteristiche precise: un piano organizzato, programmato da un governo, con il coinvolgimento della popolazione civile. A Gaza non succede questo.
«Il termine “genocidio” viene coniato da Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, a proposito proprio del caso armeno. Poi, dopo Auschwitz, la sua elaborazione trovò conferma. Alla base c’è l’idea che non si tratti di massacri occasionali, ma della distruzione programmata di un popolo. Un genocidio non è quello di Attila, che scende dalle Alpi e rade al suolo Aquileia. Perché i contadini vengono risparmiati. Ad Attila servono per le sue truppe e li fa lavorare nelle campagne. Ecco la differenza: nel genocidio c’è una volontà politica di eliminare l’intero popolo. Attenzione: armeni ed ebrei non hanno l’esclusiva di aver vissuto questa tragedia. Un genocidio è avvenuto in Cambogia e in Ruanda, ma anche in Ucraina all’inizio degli anni Trenta del Novecento, per volontà di Stalin. Tuttavia, non bastano guerre o stragi perché lo si possa decretare. Serve la volontà politica di effettuare uno sterminio integrale. Ecco perché parlare di “genocidio a Gaza” non è corretto. Manca l’organizzazione sistematica e, soprattutto, non c’è il coinvolgimento diretto della popolazione israeliana in un piano di eliminazione collettiva, come invece avvenne in Turchia e nella Germania nazista».
Che lezione si può trarre quindi dalla vicenda armeno-azera a beneficio del conflitto a Gaza?
«Trarrei la triste lezione che quando un popolo è piccolo ed è stato già molto maltrattato non se ne parla finché non si muove un circo mediatico come, al contrario, sta succedendo a Gaza, prendendo come oro colato qualsiasi dichiarazione di Hamas. Gli armeni però non hanno un sistema di comunicazione efficiente, né un impatto sull’opinione pubblica. E tantomeno uno strumento di ricatto come sono gli ostaggi che, dal 7 ottobre 2023, sono nelle mani dei terroristi palestinesi. Gli armeni sono condannati al silenzio da decenni. Il mio timore è che, anche con questo accordo, il Paese sia destinato a diventare una realtà del tutto ininfluente. Anche per responsabilità del suo governo. Pashinyan in prima persona. Mi auguro di sbagliarmi».
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