Il welfare aziendale è tornato alla ribalta in queste ore con il decreto Lavoro, ma fu introdotto con la Legge di bilancio 2016. È diventato strumento sempre più diffuso attraverso il quale le imprese si prendono in carico i bisogni dei lavoratori e delle proprie famiglie. Il fisco premia questo comportamento virtuoso dove il mercato, in altre parole, diventa veicolo per svolgere un ruolo sussidiario affiancando lo Stato.

Accanto al tradizionale Primo Welfare – fondato sull’insieme di politiche pubbliche di sostegno sociale – si è andato affermando il Secondo Welfare, di natura privata tramite i datori di lavoro, avente come obiettivo di mobilitare risorse aggiuntive per soddisfare bisogni e aspettative crescenti. Uno strumento che trae ispirazione da alcuni imprenditori pionieri. I corsi di inglese per immigrati e il centro per l’assistenza sanitaria nelle aziende Ford, il modello Olivetti o Ferrero rivolto anche alle esigenze abitative e formative. Le richieste di benessere dei dipendenti nel corso del tempo mutano, e assumono forme inedite, specie dopo pandemia, rincaro energia e carrello della spesa. Il legislatore in questi anni ha risposto utilizzando sempre di più lo strumento del welfare, come veicolo agile in grado di fornire soluzioni immediate.

Oggi il “catalogo” dei servizi welfare che una azienda può fornire ai propri dipendenti beneficiando di agevolazioni fiscali è piuttosto ampio e sembra destinato a crescere con gli interventi previsti dal disegno di legge delega fiscale. Si va dalla sanità e previdenza integrativa, fino al sostegno alla genitorialità, la cultura, i servizi socio sanitari. Un elenco che però andrà aggiornato inserendo, ad esempio, incentivi per la mobilità sostenibile, la solidarietà tra dipendenti – pensiamo alla possibilità di donare senza alcun aggravio fiscale i giorni di ferie o il premio di produzione a favore dei colleghi in difficoltà – oppure ampliando semplicemente le soglie previste per defiscalizzare la sanità integrativa, un target sempre più richiesto anche alla luce delle lunghe liste d’attesa.

Questo è lo scenario su cui è intervenuto il dl lavoro, con modalità che tuttavia lasciano aperte alcune riflessioni sul modo di concepire questi strumenti. Parliamo della revisione dei fringe benefit, ovvero della forma di welfare aziendale in assoluto più gettonata dai lavoratori in quanto utilizzabile per moltissime esigenze. I buoni acquisto, buoni carburante, fino all’auto aziendale. Insomma si tratta di veri e propri compensi in natura forniti dal datore di lavoro ed erogati, anziché in denaro, sotto forma di beni o servizi e trasferiti anche attraverso il rilascio di buoni. Uno strumento flessibile, accompagnato anche da una agevolazione fiscale che lo rende particolarmente appetibile. È infatti esente fiscalmente e non sconta alcun onere previdenziale per il lavoratore e nello stesso tempo è deducibile per il datore di lavoro.

Ciò che sorprende, tuttavia, è che non si siano fatti passi in avanti sulla soglia limite dei 258 euro. Su questo mi auguro davvero che la riforma fiscale possa aumentarla a regime, risolvendo anche un altro aspetto piuttosto singolare. Ovvero se un lavoratore riceve un benefit superiore a 258 euro perde tutti i benefici e scattano tassazione e oneri previdenziali per l’intero importo. Forse sarebbe il caso di prevedere non solo una soglia più alta, rapportata ai tempi che viviamo, ma anche di evitare effetti così penalizzanti una volta che venga superata. Andrebbe introdotta una sorta di franchigia che consenta di fare salve le agevolazioni quantomeno entro il limite prestabilito. Il decreto lavoro prova a risolvere alcuni di questi aspetti, ma agisce in modo estemporaneo e con una modalità che lascia seri dubbi sui reali obiettivi perseguiti dal governo Meloni.

Per il 2023, infatti, viene confermato l’innalzamento della soglia di esenzione fino a 3mila euro annui per i fringe benefit, includendo, cosa decisamente utile, anche le somme anticipate o rimborsate per il pagamento delle utenze domestiche di acqua, luce e gas. Non si tratta tuttavia di una novità, dal momento che anche il precedente Governo Draghi, nel 2022, aveva fatto lo stesso. Quello che stupisce tuttavia nel dl lavoro appena convertito è che, a differenza dello scorso anno, è stata ristretta la platea dei lavoratori beneficiari, riservando il nuovo regime ai soli dipendenti con figli a carico, compresi i figli nati fuori del matrimonio riconosciuti, i figli adottivi o affidati.

Questo criterio renderà decisamente difficile comprendere i criteri di riparto del beneficio. Pensiamo al caso in cui i figli siano a carico di entrambi i genitori o in caso di separazione legale o divorzio nonché di affidamento congiunto dei figli. È sbagliato limitare l’innalzamento della soglia dei fringe benefit solo per le coppie con figli, andando paradossalmente a sconfessare uno degli obiettivi più volte annunciati dal governo, ovvero di favorire la natalità anche attraverso incentivi alle giovani coppie. Per queste ultime, cosi come per tutte le coppie senza figli, questo intervento diventa una vera e propria beffa. Infatti non solo non potranno beneficiare del benefit fino a 3 mila euro, dovendo accontentarsi di 258 euro, ma neanche potranno utilizzare la soglia minima loro spettante per il pagamento delle bollette in quanto non previsto dalla norma.

Il maggiore costo della vita colpisce qualsiasi tipologia di lavoratore, dalle coppie più giovani senza figli ai single che non possono contare sulla presenza di un secondo percettore di reddito. Senza contare le famiglie che pur non avendo più fiscalmente a carico i propri figli ne sostengono le spese e i costi legati ad istruzione o avviamento al lavoro. Insomma il dl lavoro non coglie pienamente nel segno. Se vogliamo anche guardare oltre, bisogna promuovere maggiormente questo strumento presso le pmi, ed estenderlo ai lavoratori del pubblico impiego. Si pensi soltanto ai sanitari o alle forze dell’ordine, spesso in servizio lontano dal luogo di residenza, che potrebbero integrare il reddito con servizi di welfare.

Maria Chiara Gadda

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