Elsa Fornero li aveva descritti come choosy, schizzinosi, già nel 2012. Ancora prima, nel 2007, fu l’allora Ministro dell’Economia Padoa-Schioppa a definire “bamboccioni” i ragazzi che rimanevano a casa coi genitori senza sposarsi e diventare autonomi. Ma c’è anche chi parla con leggerezza di “inoccupabili”, come se la responsabilità fosse unicamente loro: vorrei anche darti un lavoro, sai, ma non sei occupabile. Come quando alla fine di una relazione si maschera la responsabilità con un “non sei tu, sono io”, per intendere l’esatto contrario.

Ma chi sono questi ragazzi? Si definiscono NEET, acronimo inglese (e ci scuserà il Ministro Sangiuliano) che sta per Neither in Employment nor in Education and Training. Ovvero, persone che non studiano, non lavorano e non si stanno formando. In particolare, persone giovani, di età compresa tra i 15 e i 29 anni.

Chi diventa Neet? Innanzitutto, tutti i giovani che non si allontanano dalla casa dei propri genitori, ma rimangono da loro sostenuti in tutto e per tutto, senza avviarsi a un percorso di indipendenza. Gli stessi poi non chiudono il percorso formativo, inteso non tanto come scuola dell’obbligo ma come percorso che li possa introdurre all’indipendenza personale e sociale. Non solo, ma non lavorano neanche, a prescindere dal contratto e dalla posizione. Infine, non formano e non dimostrano di voler costruire un proprio nucleo familiare e non si assumono responsabilità verso il proprio nucleo familiare, intese come economiche e personali. Per dirla semplice, ragazzi che non stanno facendo nulla: né per loro, né per il Paese in cui vivono.

Il fenomeno è molto complesso e complicato, studiato da sociologi, psicologi ed economisti da anni. Sfatiamo subito un mito: non è “colpa” dei ragazzi, non scelgono consapevolmente di diventare NEET. Non stiamo parlando di una moda, di ragazzi svogliati o di ragazzi che non vogliono fare lavori umili preferendo rimanere a casa a non fare nulla, come magari una certa narrazione lascia pensare. Le cause del fenomeno sono diverse: poca domanda di posti di lavoro qualificati, una formazione spesso non in linea coi tempi e con la richiesta del mercato del lavoro, alcune diseguaglianze sociali ed economiche tra zone del Paese in crescita continua e causa di diverse disparità. Ma perché è importante parlarne e, soprattutto, agevolare l’inserimento dei NEET nel mondo del lavoro attraverso politiche sociali, formative ed economiche?

Pochi giorni fa l’Eurostat, cioè l’Ufficio statistico dell’Unione europea, ha pubblicato i dati aggiornati sul tema. La buona notizia è che in Europa il numero di NEET sta diminuendo costantemente: siamo passati da una quota del 16,1% nel 2013 all’11,7% nel 2022. Per capire la bontà della notizia basti pensare che il target che l’Europa si è data entro il 2030 è di arrivare al 9%, e che già un terzo (un terzo!) dei paesi membri è sotto questo livello. Tutto bene quindi?

No, se pensiamo al nostro Paese, motivo per cui è necessario parlarne (e magari fare qualcosa). Solo la Romania fa peggio di noi: nel 2022 in Italia la quota di NEET è ancora al 19%, in leggero calo rispetto al 2012 ma ancora tanto, troppo alta per un paese avanzato come il nostro. Per dirla semplice ancora una volta, 2 ragazzi su 10 tra i 15 e i 29 anni sono fermi al palo: non studiano, non lavorano, non cercano indipendenza. Un esercito nascosto e silenzioso, che rischia di avere un impatto enorme sull’economia sociale, di sviluppo e previdenziale di questo paese.

Chi sono i NEET italiani? Un recente studio di Intesa Sanpaolo ha individuato alcune categorie. I primi a farne parte sono le vittime della dispersione scolastica: cioè, ragazzi che abbandonano il percorso di studi, ne escono precocemente per non rientrarci o per fare un cammino intermittente che alla fine ne pregiudica la formazione di competenze. Ci sono poi le donne che diventano mamme giovani (che sono sempre meno, ma è un altro capitolo di questo Paese) e che scelgono di occuparsi solo dei figli, mettendo il proprio futuro in stand by fino a data da destinarsi. Parlando sempre di donne, lo studio ha individuato quelle che fanno lavori saltuari e non trovano stabilità nel mercato del lavoro attuale (che spesso non agevola le donne, ma anche questo è un altro tema). Ci sono poi i ragazzi che hanno vissuto gli ultimi anni di scuola o l’intero ciclo universitario in pieno covid, e ora si trovano lanciati nella nuova normalità senza averne i mezzi per poterci stare. E infine ci sono quelli “troppo preparati” (anche se personalmente preferisco parlare di “diversamente preparati”) ovvero ragazzi che alla fine del loro percorso di studi non trovano nel mercato del lavoro richiesta per le loro competenze (e il più delle volte non perché le loro sono “troppo”, ma perché non sono quelle attuali).

Insomma, più si va a fondo e più si scopre che i “bamboccioni” sono un fenomeno variegato, fatto di ragazze e ragazzi che vivono sì la stessa condizione ma per cause diverse, e che vivono tutti una sfiducia verso il proprio futuro e anche verso il proprio Paese. Ed è per questo motivo che banalizzare il fenomeno è sbagliato, ed è per lo stesso motivo che sono necessarie politiche sociali mirate e concrete destinate al loro reinserimento nel mercato del lavoro e in percorsi formativi adeguati.

Cosa si può e si deve fare? Cambiare percorsi formativi, rendendoli sempre più adeguati agli anni ‘20. Dare a insegnanti e professori competenze attuali, rimettendoli al centro della formazione. Costruire politiche inclusive per chi, soprattutto in zone meno urbanizzate o nel Sud Italia, rimane indietro. Agevolare percorsi formativi concreti per dare agli inoccupati le competenze richieste dal mondo del lavoro. Fornire sgravi alle aziende che non solo assumono, ma sostengono e formano ragazzi in un percorso stabile. Agevolare l’uscita di casa con politiche di sostegno per l’acquisto e l’affitto. Dare ai genitori gli strumenti per poter intercettare il fenomeno e agevolare l’uscita da questa categoria dei propri figli. Istituire politiche sanitarie di sostegno alla fragilità mentale e personale dei ragazzi, male ancora troppo inesplorato di questi tempi. Rendere obbligatoria la remunerazione degli stage. Sono solo alcune idee, che esploreremo nelle prossime settimane.
Si può e si deve fare tanto, per garantire un Futuro ai ragazzi, e all’Italia.

Gabriele Sada

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