“Prima” era bella solo la mia gioventù
Berlusconi incolpato per la sua morte, la nostalgia per il mondo di “prima” di chi sognava di cambiarlo…
Dalle 10 di mattina di lunedì scorso, chiamato – impropriamente, ma così va il mondo – a dire la mia sulla morte di Berlusconi, non ero in grado di andare al di là della più colossale delle banalità: “La sua scomparsa sancisce la fine della Seconda Repubblica”, ripetevo in lungo e in largo (complimenti, che bella scoperta).
Per elaborare pensieri più interessanti, mi sembrava necessario far passare del tempo. Per approfondire che cosa effettivamente ha significato Berlusconi. Perché decise di “scendere in campo” (e come accadde tutto ciò, cosa del massimo interesse per chi fa di mestiere il comunicatore). Quali obiettivi di quelli annunciati nel mitico video (“l’Italia è il paese che amo”) ha realizzato nel trentennio (se mai se ne è realizzato qualcuno). Quale eredità politica lascia, a chi, e se e come la sua morte cambierà gli assetti del sistema Italia.
Domande vere, oggettive, asettiche. Cose da studiare. Nel frattempo però, nelle ore successive, si faceva strada un altro mood, insinuante e velenoso. Di fronte alla sua morte, non solo non veniva meno l’odio, l’astio antico di una parte del paese, ma cresceva un risentimento di fondo di tutti gli antiberlusconiani d’Italia, che cominciavano ad incolpare il Cavaliere per la sua stessa scomparsa (e, naturalmente, per le ritualità pubbliche ad essa collegate).
Era come se tante prefiche fastidiose e lamentose dicessero: “Perché te ne sei andato, maledetto? Senza di te come faremo a dire che “prima” si stava meglio?”. Interrogativi angosciosi sintetizzati qualche giorno dopo su Linkiesta dalla geniale, adorabile Guia Soncini, che ha citato “quelli (…) già adulti allora e (…) attaccati alle loro convinzioni di allora, (che) hanno accolto irritati la notizia precisando che, certo, Berlusconi avrà pure cambiato l’Italia, ma loro preferivano l’Italia di prima”. Eccola, la chiave per capire. Era meglio l’Italia di prima, questa è l’idea che al fondo ha tenuto e ancora oggi tiene insieme antiberlusconiani duri e morbidi, progressisti e legulei, perbenisti e radical chic.
Persone grosso modo della mia generazione, insomma avanti con gli anni, che hanno condiviso esperienze politiche, letture, consumi culturali, la cui diffusissima (egemone?) weltanschauung è stata letteralmente sderenata dall’irruzione in scena di Berlusconi. E da allora non si sono più ripresi, rimanendo a fare la guardia al bidone vuoto del vecchio mondo. Diventando strenui paladini dell’ancien régime, difendendo stanche procedure e finte solennità. Arrivando a sostenere – nella più clamorosa delle eterogenesi dei fini – banchieri e burocrati, conservatori della più bell’acqua e caste di “presentabili”, ingurgitando rospi, portando sulla scena pubblica sepolcri imbiancati benvestiti e capaci di stare a tavola senza sporcare, che avevano il solo obiettivo di preservare propri poteri e prerogative.
E, ovviamente, delegando ai magistrati il compito di presidiare il sistema morente per salvarlo dagli intrusi. Loro, quelli nati e cresciuti nell’illusione di fare la rivoluzione e cambiare la società! Io, che non ho mai votato Berlusconi, non ho nostalgia per il mondo di prima e non voglio che ritorni.
“Prima” era bella solo la mia gioventù, fatta di passioni e amori, ambizioni e follie, senza acciacchi e responsabilità. Per il resto, il “prima” era decisamente peggio dell’”adesso” e – sono abbastanza certo – del “domani”. L’Italia di una volta era bigotta, chiusa, arcideologica, certamente meno libera di quella attuale. E Berlusconi aveva tutte le ragioni a dichiarare di volerla cambiare, sia pure con tutto il carico di demagogia, approssimazioni (e bugie) di cui era capace. Che poi ci sia riuscito a farlo è un’altra storia. Ma certo non devo spiegare io ai lettori di questo giornale come e perché chiunque abbia provato a cambiare questo paese non abbia ottenuto – per usare un eufemismo – i successi sperati.
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