Le urne ancora fumanti – implacabili nel loro responso democratico – ci consegnano una netta vittoria alle elezioni politiche di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia, leader di un partito che ha più che doppiato (triplato?) Lega e Forza Italia così da non farsi prendere nemmeno se i suoi alleati volessero farle le scarpe, ipotesi non campata in aria visti i precedenti. Scongiurate le congiure, quindi, FdI guida la coalizione di destra (con poco centro e poca Lega) e si dichiara pronta a governare in una delle fasi davvero più complesse e delicate del paese in cui non sono previste lune di miele e soprattutto sono all’orizzonte complicate interdipendenze geopolitiche ed economiche. Insomma, non un buon viatico per la prima potenziale donna premier italiana.
Giorgia Meloni è stata brava a vincere anzitutto (elemento non banale) per la sua congruenza ,sia quando ha saputo perdere come invece oggi dopo l’esito elettorale. Coerenza che è un tratto da una parte “distintivo” perchè ha poco da rimproverarsi sul piano della chiarezza. In un mondo di contraddizioni e di ritrattazioni, FdI quantomeno ha tenuto certe linee dritte mentre altri andavano contromano. E tuttavia, questa stessa coerenza è – per converso – un “discrimine” perchè quanto in questi anni è stato declamato (e urlato) dall’opposizione diventa da oggi un impegno serio a trasformarsi in atti di governo, in carta scritta.
Se il centrodestra ci riuscirà – per quella cosa che aulicamente si chiama “grazia di stato” – allora potremmo parlare di cambio di passo politico non indifferente. Provare infatti ad attualizzare, da conservatori, una svolta davvero liberale in campo economico senza portarci al default tecnico, dando magari impulso alla produttività e al merito senza annullare il welfare; oppure eliminare (così come affermato solennemente fino all’ultimo) il reddito di cittadinanza oppure rimodulare alcune posizioni sull’immigrazione senza blocchi navali o bullismi contro i barconi è una sfida titanica per i vincitori, e per certi versi affascinante per la destra al governo.
Vedremo in itinere quel che succederà. Ho i miei dubbi ma giudicheremo col tempo.
Il semi cappotto della destra nei confronti degli altri players ci consente anche qualche considerazione sui “vinti”: la sfida di Calenda – benemerita – non sfonda la soglia della doppia cifra e annulla ogni possibile orizzonte draghiano in senso stretto. Mentre è cocente la sconfitta del Pd, incapace dal punto di vista strategico e programmatico di allineare la teoresi con la prassi. Un manicheismo – quello impostato da Enrico Letta – che non ha fatto i conti con le cinquanta sfumature di grigio del paese, con un nord produttivo e in affanno per il caro energia e un sud abulico o per una parte aggrappato all’assistenzialismo, senza un progetto di crescita, uno slancio che sia uno, in attesa che tanto poi passa la nottata.
Non essendoci spazio di manovra, perciò, il partito democratico si è limitato a farsi un cantuccio sussurrando diversi “sì ma anche no…” ignorando che quella roba lì non ha funzionato portando a casa qualche decimale più di Renzi nel 2018, il che – dopo tutto il fiele riversato su Renzi – è un aggravante.
Come è grave – a mio avviso – che il movimento cinque stelle risale dal crollo dei mesi scorsi e spaccia il suo 15% per vittoria epocale dimenticando almeno due cose: per primo, in una sola legislatura il partito di Conte dimezza i voti.
E, secondo, ha speculato (di riflesso) su un reddito di cittadinanza che – per stessa ammissione dei grillini – va riformato perchè così strutturato non va.
Un’ultima osservazione: come portare alla partecipazione un terzo di italiani rimasti a casa?
© Riproduzione riservata