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Capire il populismo, con Marco Tarchi

Insegnante, giornalista e scrittore
La copertina della seconda edizione del volume di Marco Tarchi.
La copertina della seconda edizione del volume di Marco Tarchi.
La copertina della seconda edizione del volume di Marco Tarchi.

Nella scienza politica ci si imbatte abbastanza spesso in termini chiave e usatissimi, che nessuno – o quasi – vuole però cucirsi addosso. Uno di questi è senza dubbio “terrorismo“, su cui abbiamo già scritto a sufficienza e un altro è, appunto, “populismo“. Tuttavia, mentre rimane relativamente difficile trovare oggi un gruppo, partito o movimento politico che fieramente si auto-identifichi come “terrorista”, le cose vanno gradualmente cambiando per il termine che a noi qui interessa analizzare, “populismo”.

Sul tema del populismo si è ripreso a scrivere negli ultimi anni moltissimo a causa del prepotente ritorno di movimenti tacciati di populismo nell’arena politica internazionale. E’ dunque facile imbattersi in testi che di scientifico o accademico hanno davvero poco o nulla – come è stato di recente il caso del pessimo Sinistra e popolo di Luca Ricolfi, addirittura irritante in alcuni suoi passaggi – e in testi che non sfigurano all’interno di una bibliografia accademica per un esame anche avanzato di politologia o di dottrine politiche. Quest’ultimo è il caso del notevolissimo Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo (Il Mulino, seconda edizione 2015, 379 pagine, 14€) di Marco Tarchi, il più profondo intellettuale della destra missina, oggi attestato su posizioni di destra liberale. Tarchi è professore di Scienza politica e Comunicazione politica all’Università di Firenze.

Il piglio di Tarchi è chiaramente scientifico e desideroso di essere esaustivo e compendioso, ma non necessariamente conciso. Il volume, che brilla per rigore analitico e teorico, riassume la conclusione di uno studio decennale sul populismo. Dieci anni di articoli scientifici che hanno anche prodotto una prima edizione del volume del 2003, ora rivista e aggiornata. Il compito di Tarchi è paziente e non semplice, poiché per “populismo” – al contrario che per “terrorismo” – si intendono fenomeni politici anche molto differenti fra loro. Guardando agli studi latino americani, per esempio, il populismo, sinonimo qui di peronismo, è visto essenzialmente come un fenomeno progressista e sostanzialmente positivo. Quasi opposta la situazione nella parte occidentale del continente europeo. Ancora diverso il contesto statunitense o quello dell’est europeo. Più simile a quello Sud Americano il caso di diversi movimenti populisti africani e asiatici.

Il libro si apre con una introduzione che spiega la tesi di Tarchi, ossia come l’Italia sia il laboratorio del populismo, e non da poco tempo. Il primo capitolo invece funge a mo’ di rassegna letteraria di ciò che storici, politologi e analisti hanno scritto sul populismo. Qui viene citato fra gli altri il “complesso di Cenerentola” cioè la “frustrazione che deriva[va] dal non riuscire a trovare nella realtà oggetti perfettamente rispondenti ai requisiti stabiliti dalla teoria” per quanto concerne il “cosa è il populismo”. Alcuni studiosi (Mény e Yves Surel, Mudde, Canovan) vedono il populismo come un’ideologia, per quanto debole. Secondo altri (Laclau e Taguieff), si può solo parlare di uno stile populista.

Questo primo capitolo è fondamentale per arrivare a una definizione che Tarchi sceglie per definire il fenomeno populista. In disaccordo con queste due scuole di pensiero, Tarchi propone l’idea che il populismo sia una mentalità caratteristica: “Definiamo perciò il populismo come la mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione.” (76-7) Se il populismo è una “forma mentis”, ossia qualcosa di meno strutturato di un’ideologia, sue tracce si potranno trovare nel DNA di forze politiche anche molto differenti, confermando la tesi nodale di Tarchi, di una “trasversalità del populismo rispetto alla linea divisoria sinistra/destra” (71).

Conviene a questo punto mettere in luce un paio di caratteristiche del populismo così come lo intende Tarchi: A) l’esaltazione dell’Uomo della strada (da noi anche definito “Uomo qualunque”) in contrapposizione alle élites, ma anche gli intellettuali, i professori, gli alti funzionari burocratici o del fisco, all’interno di un dualismo che in realtà contrappone il cosiddetto “buon senso” contro lo studio e la competenza; B) la sfiducia verso le istituzioni e ogni forma di democrazia rappresentativa, in contrapposizione alla democrazia diretta, all’idea di volontà o sovranità popolare in guisa anche di referendum popolare. La prima diade ci riporta a pensare al mito del buon selvaggio rousseiano, contro l’uomo agricolo o industriale, quindi un pensiero che da populista può farsi popolano e popolare e guardare, seppur rozzamente, a una sinistra (però non marxiana e non leninista, ben inteso). La seconda diade invece esalta l’inutilità di una Costituzione, di una Grundnorme o Legge, nuovamente di un sistema fiscale, e più in generale di tutto ciò che è laccio o regola, in favore di un’idea di potere quasi superomistica-nietzchiana, e quindi che guarda, sempre rozzamente, verso l’ala autoritiaria o il mito dell’uomo forte, purché proveniente da umili origini.
Emergono così quei “nemici del popolo” di cui parlano diversi autori. Per Tarchi: “Nel pantheon populista dei nemici del popolo il posto d’onore spetta al mondo della politica, popolato esclusivamente di parassiti, che sfruttano i sacrifici della gente semplice per il proprio esclusivo tornaconto, e da usurpatori, che hanno sottratto al popolo la sovranità che gli spetterebbe” (62).

I capitoli dal III al IX sono meno teorici e si occupano di analizzare la situazione storico-politica della Repubblica italiana. La tesi di Tarchi di questi ultimi sei capitoli è tanto semplice quanto, si parva licet, fuori fuoco: a partire da Guglielmo Giannini e dal suo Uomo Qualunque, fino al Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo e Casaleggio, il populismo in Italia è in tutti i luoghi e in tutti i laghi, come canterebbe Valerio Scanu. A destra, naturalmente: UQ; nel laurismo napoletano, nella Lega Nord delle origini bossiane, che Marchi definisce addirittura “populismo come movimento di massa” (243-78); nelle varie leghe; nella Lega sovranista e nazionale di Salvini. Al Centro: nel Partito Radicale e più in generale nella galassia pannelliana e referendaria; nel movimento di Mario Segni per i referendum elettorali; nella Rete di Orlando; nelle picconate di Cossiga; nel berlusconismo ma anche nel dipietrismo e nella fase di Tangentopoli. A Sinistra: le trasmissioni di Michele Santoro e simili; il movimento dei Girotondi; il popolo viola; e, ovviamente, non poteva mancare una pagina dedicata al “populismo di Renzi“, pp. 369-70. Con il movimento di Grillo siamo poi a “oltre la destra e la sinistra, ovvero il populismo allo stato puro” (333-64).

In sostanza, sembra quasi che Tarchi si sia innamorato dell’argomento della sua dotta disamina, e abbia finito col vedere il populismo – o per lo meno la “mentalità populista” – in tutti i maggiori movimenti politici e partitici italiani, forse con la sola eccezione del PCI, del PSI, dei laici di centro e del MSI, anche se per i primi due c’è un brevissimo accenno alla loro stagione del frontismo, che è visto ancora una volta come un ammantarsi di essere qualcosa di meno istituzionale di un partito, che strizza l’occhio al movimento dell’Uomo Qualunque.

Va da sé, che se populista è stato anche il movimento radicale di Pannella e Bonino, ossia un movimento che non ha mai usato nemmeno per sbaglio il termine “popolo”, parlando sempre e solo di “cittadini”, che è nome parlante carico di significato opposto a quello del lessico populista, fino appunto a Renzi, allora sono tutti populisti e nessuno è populista.

A mio parere l’etichetta, proprio accettando la definizione di populismo stabilita da Tarchi, si deve applicare dunque solo a Guglielmo Giannini e l’Uomo Qualunque, al laurismo, al salvinismo e al Movimento Cinque Stelle, perché perfino nel leghismo bossiano e nel berlusconismo sopravvivono forti elementi di ideologia politica non populista, radicata in credi differenti. Quanto a Renzi, si possono individuare delle frasi dal sapore populista e alcuni sporadici episodi (il peggiore forse fu quando fece togliere le bandiere della UE durante una conferenza stampa sul terremoto del 30 ottobre 2016, in polemica con l’Europa) ma sembra oggettivamente troppo poco per poter tacciare il renzismo di populismo, specie in confronto ai suoi avversari politici a cinque stelle, meloniani o leghisti.