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I wanna dance: Whitney Houston è una leggenda destinata all’immortalità

Avvocato e scrittore
I wanna dance: Whitney Houston è una leggenda destinata all’immortalità

A poco più di dieci anni dalla sua tragica scomparsa (11 febbraio 2012) Anthony Mac Carten, dopo il grande successo di Bohemian Rapsody, ci riprova con un’altra grandissima della musica moderna, Whitney Houston.

Voluto soprattutto dalla cognata Pat Houston, attuale presidente della fondazione che gestisce il patrimonio della cantante, e da Clive Davis il suo discografico, “I wanna dance with somebody. Whitney una voce diventata leggenda” è il film sulla vita controversa della grande cantante statunitense uscito nelle sale da appena quattro giorni. La trama ripercorre la straordinaria carriera di Whitney Houston che, a differenza di quella di altri artisti a lei simili e contemporanei, è stata particolare per la travolgente rapidità con la quale ha letteralmente bruciato le tappe.

In soli quattro anni dalla firma del contratto, con i suoi primi due album “Whitney Houston” (1985) e “Whitney” (1987), la cantante polverizzò tutti i record di vendite sino ad allora esistiti e ancora oggi rimasti imbattuti. Aveva appena 23 anni. E su questo aspetto il film non centellina proprio nulla supportato da una bravissima Naomi Ackie, che seppur fisicamente molto diversa dalla cantante ne fa una interpretazione straordinaria rendendo allo spettatore la sensazione di essere di fronte a una Whitney reale, e da una colonna sonora basata esclusivamente sui brani originali della Houston.  Il risultato finale è che, per lo spettatore, è una grande goduria.

Tra le righe del racconto di questa incredibile carrellata di successi l’autore non lesina le pieghe intime e a volte dolorose della vita di Whitney a cominciare dai gravi dissapori tra i suoi genitori, che rimbalzarono con violenza nella sua adolescenza, e passando per la spregiudicatezza di un padre-manager che, alla faccia dell’affetto paterno, vide nel talento della figlia il modo per fare, e spendere, soldi in proporzioni inimmaginabili. E non cerca neanche di tenere nell’ombra la promiscuità del rapporto con l’amica-segretaria Robin Crawford e la sincera e fedele presenza di Clive Davis, interpretato da un bravissimo Stanley Tucci,  che non fu solo il suo discografico o un mentore e  neanche le fu solo un amico, ma fu l’unica persona che rimase sempre al suo fianco, in ogni momento e sino all’ultimo giorno, mostrando di credere in lei come solo un padre sa fare.

Qualche sconto l’autore lo fa, invece, sulla parte oscura della vita di Whitney, gli ultimi anni, il disastroso matrimonio con un autentico scellerato di cui traspare l’invidia violenta per il talento e i successi della moglie, le droghe, il baratro psicologico dal quale riesce a riemergere proprio aggrappandosi alla mano tesa di Davis.

Tutte vicende che nel film non sono taciute e neanche tenute nascoste ma sono raccontate con delicatezza nel tentativo di non offuscare il grande talento dell’artista e con l’intento di narrare non una donna dissoluta, preda di vizi e perversioni, ma una persona fragile che pensò di trovare nelle forme e con i mezzi più sbagliati il rimedio a dei vuoti, iniziati con l’adolescenza e culminati con un matrimonio fallito, derivati dalla mancanza di una famiglia che fosse lo scrigno dell’amore ma anche della fiducia tra le persone.

Ecco il motivo per cui il film non termina con le scene dei suoi ultimi istanti di vita ma con la rievocazione di un evento meno noto dei suoi tanti successi, riproposti nel film, ma che ne racconta il suo straordinario talento: la interpretazione, alla premiazione degli American Music Awards del 1994, di un medley arrangiato con “Porgy, And I Am Telling You I’m Not Going e I have nothing” in nove minuti di note difficilissime arricchite da una serie di acuti talmente lunghi e  ripetuti  da sfiancare un campione di immersioni in apnea.

Ed è sicuramente per lo stesso motivo che nel corpo del film l’autore pone un delicato ma significativo accento su un altro evento della vita artistica di Whitney, probabilmente sfuggito ai più, ma indicativo della sua bravura.

Sono sempre gli stessi anni, quelli anche dell’uscita del film Bodyguard che la rese una stella planetaria. A Tampa in Florida si gioca il Superbowl e, come da tradizione, l’inno nazionale viene cantato dall’artista in auge nel momento. Il National anthem americano è un brano difficilissimo perché il ritornello sale di 2 ottave e l’acuto finale è un “fa5” che pochissime cantanti liriche sono riuscite a toccare.  In quella occasione la interpretazione di Whitney Houston fu talmente strepitosa che ancora oggi, nelle tantissime classifiche delle migliori performance dell’inno che gli americani amano tanto fare, la edizione di Tampa cantata da Whitney continua a essere annoverata come la più straordinaria di sempre alla faccia dei tantissimi celebri talenti che su quel ritornello e su quella celebre nota si sono incredibilmente abbarbicati e a volte letteralmente frantumati.

E se nel titolo era racchiusa la mission che gli autori del film si erano proposti non c’è che dire che lo scopo è stato raggiunto.

Alzandosi dalla poltrona, mentre scorrono i titoli di coda e le note di I will always love you accompagnano gli spettatori verso l’uscita, le emozioni che restano nella mente e accarezzano il cuore sono i ricordi delle imprese musicali di una dolce ma fragile donna che come una rarissima perla nera è diventata oggi, nella storia della musica mondiale, una leggenda destinata all’immortalità.