E’ nella relazione con il “proprio limite” (dal latino limes – confine) che l’uomo comprende se stesso e gli altri.
Nell’anno che celebra il quarto centenario della poetica di Blaise Pascal, pensatore geniale e ricercatore del vero e al quale Papa Francesco ha dedicato di recente la lettera sublimitas et miseria hominis ricordiamo uno dei suoi moniti più emblematici sul senso della finitezza umana così tanto avversato da una società che si vuole post-mortale “…non essendo (gli uomini) potuti guarire dalla morte, hanno risolto, per vivere felici, di non pensarci più”.
Ma a furia di non pensare più ai nostri limiti stiamo in qualche modo finendo per mettere a repentaglio la nostra e la pelle altrui con questo procedere a sfidare l’esistenza come un costante gioco d’azzardo, spostando sempre più in là la linea di confine fino all’appiattimento del buonsenso fino all’illusione dell’onnipotenza che non c’è. Con il rischio non ipotetico – ma serio come suggeritoci dagli ultimi fatti di cronaca – di atteggiamenti che non fatico a definire “criminogeni” ossia capaci di portare alla devianza mettendo a rischio l’incolumità altrui.
Questa mutazione negativa del concetto di anarchico arbitrio sul web è il cuore della questione in quanto non sembra esserci più un confine (appunto) tra libertà pur demenziale del farsi vedere sui social network e protezione del prossimo. E tuttavia tra gli aspetti che definiscono il passaggio dall’adolescenza all’età adulta ci dovrebbe essere – specularmente – lo sviluppo della prudenza, che comprende l’accettazione di ciò che si può e ciò che non si può, la comprensione dei costi della sfida continua e i benefici invece di sapere su cosa abbiamo potere e su cosa non ne abbiamo per vivere serenamente.
Sembra un’eternità eppure negli anni ’90, guardando alle imprese no-limits di Patrick De Gayardon de Fenoyl (1960 -1998) avremmo avuto quella paralisi “catartica” su cosa “non-fare” invece che darsi all’imitazione. Lo stesso campione di base jumping e surfer dell’aria – che sfidò audacemente le regole della fisica, tuffandosi senza ossigeno su Mosca da 12.700 metri e lanciandosi da un aereo solo per rientrarvi volando con la tuta alare – teneva a dire che l’essenza degli sport estremi stava nei limiti stessi dell’uomo, nella sua ontologica precarietà, nel suo vivere una vita “flottant” direbbe Paul Ricoeur. Basterebbe questo per allarmarsi di fronte a recenti fatti di cronaca (da Casal Palocco fino all’ultima “sfida” dei minorenni che a Giussano sfrecciavano per le strade della Brianza con l’auto dei genitori beccando anche una multa di oltre 15.000 euro) che oramai osserviamo come eventi non isolati e di fronte ai quali dobbiamo porci delle domande. Non dimenticando che la prova regina che qualcosa non va in certi meccanismi ce la offrono gli stessi capi delle piattaforme i quali – chiamali fessi – “proibiscono” se non limitano fortemente ai lori figli accessi a quelle stesse piattaforme social dove navigano per ore gli adolescenti di oltre mezzo pianeta. Se questo non è un indizio cos’altro è?
Concordo con lo scrittore Eraldo Affinati quando scrive: “Non rinunciare alle nuove tecnologie sarebbe impossibile e sbagliato, ma ripristinare le gerarchie di valore all’interno della grande Rete sarebbe una conquista di libertà. Una libertà di cura e di rispetto degli altri che magnifica ed esalta persino il mio narcisismo.
Questo è incarnare il limite, quando è giusto fermarsi anziché proseguire a tutto gas a fari spenti nella notte per un diretta live che uccide.
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