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Le deep war di Musk e Trump si gioca sull’informazione

Giornalista e Docente
Le deep war di Musk e Trump si gioca sull’informazione

In questi giorni di geopolitica frullata, i posizionamenti che un tempo sembravano stelle fisse cadono come meteore: Donald Trump si avvicina a Putin e ci fa merenda,  “saccheggia” le terre rare dell’Ucraina scaricando sugli europei il peso della futura sicurezza militare di Kiev e della sua ricostruzione. Un affare per affaristi, insomma.

Nel frattempo, la Cina osserva in disparte,  sgranocchiando popcorn, aspettando il momento giusto per giocare la sua partita magari speculando sulla guerra commerciale scatenata da Washington contro l’UE. Quest’ultima, dal canto suo, temporeggia, impantanata nelle proprie storiche e strutturali incertezze in materia di politica estera e difesa, che – come  ricordato dal ministro Guido Crosetto – in Europa, semplicemente, non si fa “inviando fax”.  Una difesa comune è un dossier complesso per intenderci, richiederebbe deliberazione dei singoli parlamenti e dovrebbe includere il vero assente da molti anni su queste questioni ovvero l’ONU. Ma il suo segretario generale prosegue con il corso di Judo e ha spento il telefono.

Ad ogni modo questa è la guerra visibile, quella che esplode in dichiarazioni roboanti e isterie di leader sotto i riflettori. C’è però una “deep war” più subdola e preoccupante, che si gioca su un campo altrettanto strategico: l’informazione.

Un fenomeno che il direttore del Tg La7, Enrico Mentana, aveva già preconizzato tempo fa parlando di una crisi informativa in cui non sono più solo le opinioni a essere contendibili, ma i fatti stessi. Oggi, anche quando verificati e documentati, i fatti vengono sistematicamente distorti, falsificati, negati. L’idea stessa di “fonte” e di fact-checking viene liquidata come menzogna, mentre la bufala – si pensi ai numeri a caso millantati dal presidente americano – assurge a verità inconfutabile. In questo contesto si inserisce l’ostilità in queste ore  di  Elon Musk  nei confronti di agenzie di stampa come Reuters e Associated Press, bersagliate dai suoi cinguettii velenosi. Musk le ha bollate come “bugiarde” come se il bue dicesse cornuto all’asino attaccandole con immagini a effetto e delegittimandone il ruolo.

Di fronte a questo assalto, le agenzie hanno risposto con un comunicato congiunto  ribadendo un principio fondamentale:

“In una democrazia, è essenziale che il pubblico abbia accesso a notizie sul proprio governo attraverso una stampa libera e indipendente. Riteniamo che qualsiasi iniziativa volta a limitare il numero di agenzie con accesso al Presidente rappresenti una minaccia per questo principio. Inoltre, ciò danneggerebbe la diffusione di informazioni affidabili a persone, comunità, imprese e mercati finanziari globali, che dipendono fortemente dal nostro lavoro giornalistico.”

Osservando i movimenti tellurici di questa fase, appare chiaro che la vera battaglia delle autocrazie mondiali converge contro un nemico preciso: l’informazione libera. Una guerra che ha avuto un’accelerazione con l’espansione dei social media, non più meri strumenti di comunicazione ma vere e proprie piattaforme di manipolazione, prive di filtri e verifiche, dove il confine tra notizia e fake news è sempre più labile. L’illusione della loro neutralità – a cui abbiamo abboccato tutti – è ormai sfatata. Lo dimostra il riposizionamento dei giganti della Silicon Valley, da Amazon a Meta, da Google a X, sedotti e riallineati su Trump, con Musk che si spinge fino a un ruolo quasi ministeriale nella nuova amministrazione.

Per dirla con una provocazione, siamo passati dalla post-verità alla “verità del post” e dell’algoritmo senza soluzione di continuità. Un cambio di paradigma che impone al giornalismo libero domande cruciali: come garantire il fact-checking senza cadere nella censura o nelle limitazioni politiche? Come seguire l’agenda politica senza diventarne megafono acritico? Certo, il giornalismo autentico resisterà finché prevarranno i principi di fairness and accountability, ma gli attacchi di Musk a Reuters e AP sono segnali d’allarme da non sottovalutare. Soprattutto perché non arrivano da Cina, Corea del Nord, Iran o Russia, ma dagli Stati Uniti.

Houston, abbiamo davvero un problema.

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