BLOG

L’inaugurazione della XIX legislatura

Avvocato e scrittore
L’inaugurazione della XIX legislatura

Ogni inaugurazione ha le sue icone da tramandare alle illustrazioni dei libri di storia e quelle che adorneranno il capitolo dedicato alla XIX legislatura non sono né solite né banali.

Certamente ci ricorderanno la presidenza “per un attimo” di Liliana Segre che, nonostante la fulminea brevità del suo incarico, ha colorato la sua presenza sullo scranno più alto del senato, la seconda carica dello stato, con una tale profondità di stile e contenuti da restituire, in un colpo solo, alle aule parlamentari quella dignità e quella solennità che le scelleratezze degli ultimi tempi, fatte di scatolette di tonno, di magliette da cubiste e striscioni da curva sud, avevano letteralmente stracciato.

Alle immagini di apertura della seduta hanno fatto da contraltare quelle di un altro grande vecchio della politica e del parlamento che, caracollante e barcollante, non riusciva né a cogliere l’ingresso del catafalco, né l’imbocco dell’urna per depositare il suo voto, né a reggersi in piedi. Resterà sempre il dubbio se le cause siano state una bevuta di troppo o una vetustà ormai incalzante. Non ci sono dubbi invece che il confronto con la dignità e il decoro manifestati dalla Segre è impietoso e che sul cammino di Berlusconi, il  “mancato monarca” del paese, non si sta avviando il tramonto: il sole è già abbondantemente calato oltre il profilo delle colline.

Ma le immagini che hanno colpito di più sono state quei larghi e desolanti vuoti tra gli scranni dell’aula che hanno fatto sembrare la seduta inaugurale del Senato il compleanno di quei poveri sfigati che invitavano tutta la classe, e anche quelle delle altre sezioni, e poi ci andavano solo quattro ragazzi (e nessuna ragazza). Quegli spazi vuoti, non certo abbandonati da senatori che avevano una sete improvvisa e problemi di prostata, sono il simbolo triste e decadente di questa legislatura.

Un simbolo da annoverare tra le scelleratezze più dolorose della vita repubblicana e il fatto che le prime vittime ne siano stati proprio i colpevoli, gli ispiratori, gli autori non è certo di consolazione.

Che non mi si gridi “esagerato” perché i guasti della riforma che ha tagliato il numero dei parlamentari li vivremo a lungo e avranno effetti molto negativi sul percorso democratico del paese.

Quando i padri costituenti, che non erano certi dei fessi e avevano una cultura che il “bibitaro del San Paolo” se la sognava e se la sogna, disegnarono la composizione di camera e senato, stabilendo un certo numero di abitanti per parlamentare (80.000 per i deputati e 200.000 per senatori), non avevano fatto le cose a cacchio.

A cacchio invece è stata la scelta di Di Maio e c. di introdurre la riforma del taglio secco del numero dei parlamentari senza che fosse accompagnata da una riforma del bipolarismo e delle funzioni delle due camere che, ai fini della funzionalità del potere legislativo dello stato, era ben più necessaria.

Una scelta idiota perché, riducendo il numero degli eletti, inevitabilmente si alza il quorum e inevitabilmente si riduce il numero delle forze politiche che hanno possibilità di accedere alle rappresentanze parlamentari creando una ferita a quello che è il sale della democrazia: il pluralismo. Inevitabilmente si viaggerà verso una oligarchia politica che, così come nel  mondo dei conti e dei numeri l’oligopolio è l’anticamera del monopolio (la jattura dell’economia), nella storia del paese sarà l’anticamera del partito unico e la morte della vita parlamentare.

Ma sono soprattutto le ragioni di tale riforma che destano e hanno dettato scandalo.

“Sono troppi” è stato lo slogan condito da tutta una serie di numeri buttati a casaccio ignorando che prima della riforma, in Europa, eravamo al sestultimo posto sotto il profilo del rapporto parlamentare per abitante (1,6 ogni 100.000 abitanti).

Ma per la “banda bassotti” della democrazia non era necessario rendere un servigio al paese e non era necessario seguire logiche e principi di coerenza.

Il movimento 5Stelle era nato nel segno “grillino” del disprezzo e della contestazione alla casta e, facendo leva sul malcontento di una parte del paese, aveva costruito il suo consenso sulla pancia degli italiani. Nella speranza di mantenere quel consenso, era necessario proseguire sullo stesso percorso anche se loro stessi erano divenuti casta.

Le, per molti versi, giuste proteste del paese, al contrario, non dovevano essere chetate con un banale taglio di numeri ma con una riqualificazione della attività della politica che la riconducesse ad una vera cura degli interessi del paese e delle sue fasce più deboli.

Ma per Conte e Di Maio tagliare, tagliare e tagliare era lo slogan più semplice e di maggiore effetto.

Sì anche Conte, oltre a Di Maio, e qualche altro complice fingiamo di essercelo perso per strada.

Il vero compito della politica sarà, invece, quello di recuperare autorevolezza, se ci riuscirà. Di tornare a essere, come nella prima repubblica, una fucina di cose fatte e da fare, meriti talmente evidenti che i guasti di quell’era non sono riusciti a cancellare vista la crescente nostalgia che nel paese si sta diffondendo verso gli anni repubblicani precedenti a tangentopoli.

Solo così si potrà evitare che figure e movimenti dozzinali, superficiali, sprovveduti e incapaci debuttino in politica e approdino in parlamento a fare guasti e a rovinare le sorti della nostra democrazia. Ma è una impresa improba e ardua visto il decadimento culturale del paese di cui la politica è lo specchio.

E già perché non bisogna dimenticare che ogni popolo ha la classe politica che si merita.

Ecco perché la cultura sarà l’industria del terzo millennio.

E in attesa di Godot dovremo continuare a subire la triste desolazione di quelle aule semivuote, simbolo dell’Italia che è, impietosa memoria dell’Italia che fu.

Ahimè.