In questi giorni è accaduto un episodio che non può essere liquidato come una “storia di calcio”.
Quando lo sport si fonde con la vicenda umana del protagonista, tutto diventa più complesso. Quante volte si sente dire o si legge che un club esoneri un allenatore. Le reazioni possono essere molteplici, di dispiacere se da tifoso pensavi stesse facendo un buon lavoro, di sollievo se proprio non ti andava giù come stava facendo giocare la tua squadra, o di indifferenza se non te ne importava niente.
C’è però una variabile, di quelle che, se anche non sei tifoso di quella squadra, rende l’esonero dell’allenatore un episodio che ti coinvolge emotivamente, che ti fa porre delle domande cui è difficilissimo trovare una risposta che abbia senso. O meglio, che abbia un senso apparentemente giusto. L’allenatore esonerato di cui parlo è Sinisa Mihajlovic, la squadra che gli ha fatto guadagnare la porta, il Bologna. Ci sono due elementi in campo in questa vicenda, i risultati che un allenatore deve portare al suo club, ed oggettivamente erano piuttosto scarsi, 3 punti in cinque gare disputate e la malattia con cui questo guerriero combatte da tempo.
Una malattia bastarda, di quelle che ti chiedono uno sforzo fisico e psicologico da leoni.
Allora mi sono chiesta: “Ma come è possibile , sanno che è malato e lo mandano a casa? Che insensibili!!” Poi ho riflettuto e mi sono detta : “In fondo lo hanno trattato da persona sana infischiandosene della malattia. Non hanno scelto la strada della commiserazione e del vittimismo“. Difficilissimo trovare logicità in ciò che è accaduto e nelle modalità.
Poi finalmente una lettera che Sinisa ha rilasciato alla Gazzetta dello Sport e quindi mi sono aggrappata alle sue parole, ai suoi pensieri, per fare chiarezza nei miei: “Mi è capitato spesso di salutare tifosi, giocatori, società, città, per dire addio o arrivederci. Fa parte della carriera di un calciatore e di un allenatore andare via prima o poi. I cicli sportivi nascono, si sviluppano, regalano soddisfazioni, a volte delusioni e poi inevitabilmente finiscono. Nulla è eterno. Ma stavolta il sapore che mi lascia il mio voltarmi indietro un’ultima volta è più triste.”
Era davvero il momento giusto perché quel filo che lo legava alla sua squadra venisse reciso? O andava ricercata una perseveranza, una tenacia diversa, la stessa dimostrata da Sinisa contro quel male oscuro. Lo stesso campione serbo lo ribadisce nell’altro passaggio che lo ha portato a raccontarsi in queste parole: “Non sono mai stato un ipocrita, non lo sarò neanche stavolta: non capisco questo esonero. Lo accetto, come un professionista deve fare, ma ritenevo la situazione assolutamente sotto controllo e migliorabile. La società non era del mio stesso avviso. Siamo appena alla quinta giornata, faccio fatica a pensare che tutto questo dipenda solo dagli ultimi risultati o dalla classifica e non sia una decisione covata da più tempo. Peccato. Ci tengo però a dire, che le mie condizioni di salute sono buone e in costante miglioramento”.
Quando ci sono storie di vita che si legano a straordinarie vicende sportive come questa e’ difficile vedere oltre la semplicistica narrazione di un club che caccia il suo condottiero. Probabilmente ritornassero indietro, forse, Mihajlovic e la società rossoblu muterebbero solo un punto di questo addio: i tempi. Lasciarsi in questo modo tra contrasti e malintesi non rende giustizia a quello che Sinisa è stato per il Bologna e a quello che la stessa società ha rappresentato per lui.
Mihajlovic guerriero in campo e fuori, è stato di esempio per tante persone, malati e non, per la sua caparbietà contro la malattia e per il suo spirito di abnegazione al lavoro. Di tutta la scia di incomprensioni che lascia questa storia umana e calcistica ciò che rimane fermo è il tratto indelebile che Sinisa fissa su questa città. Allora non è un addio, ma probabilmente, come mi auguro,solo l’avvicendarsi di un altro percorso.
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