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Pompei tra archeologia, politica e voglia di futuro (che ci serve)

Giornalista e Docente
Pompei tra archeologia, politica e voglia di futuro (che ci serve)

Quei colori che emergono dal nero delle pareti e quelle forme “riemerse” dal buio della colata lavica sembrano perfettamente coerenti con il destino segnato di Pompei, la città in cui le ossa inaridite si rianimano evocando il canto profetico di Ezechiele. Tutto a Pompei – infatti – è segnato da una bellezza senza tempo, ostinata a non lasciarsi soffocare dai cumuli di terra vulcanica. Certo, questo vale per ogni scoperta archeologica, ma a Pompei tutto è amplificato, stupefacente a tal punto che ad ogni scavo “ricaviamo” ulteriore bellezza, si riscopre un frammento di un passato che per certi versi suona a noi come attuale. Davvero l’archeologia, in qualche modo, rende “nuove” tutte le cose (cfr. Ap 21,5) donando alle pietre la capacità di parlare a noi e di ammaestrarci.

Collocata nell’insula 10 della regio IX, la sala banchetti affrescata con le storie dell’Iliade, recentemente scoperta, parte dall’ipotesi (tutta da verificare s’intende) che sia di proprietà di Aulo Rustio Vero, un politico “candidato” alle elezioni che amava ospitare i commensali amici per parlare di letteratura, strategie militari, miti e scenari presenti e futuri. Il tutto avvolto tra affreschi dedicati alla guerra di Troia. Questo straordinario ambiente, quasi completamente visibile in tutta la sua maestosità, è uno dei risultati più sorprendenti delle ultime attività di scavo, grazie alle quali ogni nuovo ritrovamento arricchisce la nostra comprensione di questa città antica e ci permette di immergerci ancora di più nella sua straordinaria storia. Pompei continua a stupire, confermando il suo status di scrigno di tesori archeologici che sembra (vivaddio) non avere fine.

Ma senza voler sembrare sofisticati e stucchevoli, il passato ci restituisce anche un emblematico profilo di classe dirigente il cui deficit è evidente in questi ultimi anni: da Aristotele in avanti è comunemente riconosciuto che una selezione delle classi dirigenti fondata su principi meritocratici (la scelta dei migliori) produce effetti di buon governo di cui beneficia l’intera collettività, ma in Italia sembriamo farne a meno con effetti devastanti. Ad aggravare la situazione, poi,  non si comprende se si tratti di mancato appello da parte di chi potrebbe dare una mano sul serio, oppure – come credo – di vera e propria moratoria da parte di tanta politica più incline a un registro effimero, da chiacchiera demenziale. È evidente che c’è un urgente bisogno di una classe dirigente in grado di offrire ai cittadini una nuova prospettiva, come il “vino nuovo” in otri nuovi, per usare un’immagine evangelica. Questa classe dirigente dovrebbe essere istruita in senso ampio, non elitario, capace di comprendere il passato, le dinamiche politiche, la cultura e la sensibilità, il che implica la lettura di libri, la visione di film e l’ascolto di musica. Se stiamo allo stile dell’ospitante borghese pompeiano, il presente e il futuro di una società possono essere costruiti su basi solide solo attraverso una conoscenza approfondita del passato. E dove ieri si affrescavano le case con i miti antichi, oggi ci basterebbe un sostanziale criterio di abilità di governo, di senso civico strutturato sempre con la barra dritta verso il bene comune.

Mi convinco sempre di più che tutto si tenga con due polarità interconnesse ed essenziali: la prima è la competenza nella sua accezione più estesa (cum-petere dal latino, sta per “chiedere con”, significa “andare insieme” verso una stessa direzione). Una politica competente va dritta al merito delle cose, è capace di gestirle affidandosi alla fatica del tempo, al discernimento e alla migliore valutazione possibile.  La seconda è l’agenda, ovvero sapersi prendere la responsabilità di dare priorità alla propria azione, procedendo per ciò che è necessario,  strutturale evitando di muoversi per episodi, con la vaghezza delle bandiere esposte ai venti.

È di tutta evidenza che queste variabili sono quasi del tutto scomparse nel dibattito pubblico, non sono percepite come urgenti per il paese  anche per quel terrore tutto italico – e tutto molto contemporaneo – per cui la cosa pubblica o l’idea di un progetto collettivo passa in subordine davanti alle nostre piccole rendite private.  Diametralmente all’opposto del triclinio di Pompei, oggi si pranza e si cena senza parlarsi, magari con lo sguardo rivolto allo schermo dello smartphone. O peggio, osserviamo sedicenti leader che parlano senza avere contezza del merito delle questioni, hanno scarsa duttilità culturale per non dire che spesso non sanno cosa dire e come fare. E sappiamo che la capacità di orientamento e lo studio dei problemi  servono come il pane a compiere quelle scelte di portata generale e di natura complessa che sono le scelte tipiche che competono a una classe dirigente. Tutte qualità scomparse a beneficio di un populismo avvilente.

A Pompei vorrei dire grazie anche per questa pur inconsapevole lezione su quanta strada abbiamo da ri-fare per il nostro paese.