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Qualcuno spieghi a Travaglio che i giudici non sono un jukebox

Avvocato e scrittore
MARCO TRAVAGLIO
MARCO TRAVAGLIO

Ma a Travaglio qualcuno prima o poi glielo dovrà pur spiegare, ammesso che non sia refrattario a tali argomenti.

La magistratura non è brava, efficiente, determinante e fedele servitrice dello stato quando si tratta di arrestare, incolpare, rinviare a giudizio, condannare qualcuno e poi si trasforma nell’esatto opposto, ai limiti della connivenza, quando assolve.

Non funziona così. I giudici non sono un jukebox che mette il disco scelto dal Travaglio di turno che inserisce il soldino.

Perché è proprio quello che traspare dalle dichiarazioni del Marco nazionale sull’esito del noto processo, al secolo conosciuto, come quello sulla “trattativa stato-mafia”.

La verità è che il santone del giustizialismo, il Bernardo Gui de noantri, non tollera che sentenze di ultimo grado smontino accuse delle quali si è, o si era, reso paladino demolendo altresì quello che è ormai un suo teorema e cioè che una semplice messa in stato di accusa è già di per sé fonte di certa colpevolezza.

Del resto non fu forse il ragazzo a sostenere tempo fa che “Non c’è nulla di scandaloso se un presunto innocente finisce in carcere”?

E fa niente se la persona reclusa subisce umiliazioni e danni che nessuno potrà riparare, fa niente se spesso le accuse sono mosse da procure peracottare, fa niente se si crea ingiustizia, l’importante è che scorra il sangue, non della vendetta si badi bene, ma della sete della flagellazione, del gusto crudele alla punizione, dell’odio che cerca sfogo nella sofferenza e fa niente se il povero cristiano di turno non ha commesso un cacchio niente.

Travaglio ha ribaltato il principio della presunzione di innocenza.

Non basterebbe una vita per raccontare i fiumi di scienza e cultura giuridica che danno un fondamento al principio di non colpevolezza nei quali si sono bagnati tutti i più grandi pensatori della storia moderna che si sono cimentati nelle ragioni dell’etica, della morale e del diritto.

Già Platone, nella “Apologia a Socrate”, narrava delle tre difese svolte a sé stesso dal filosofo ateniese, in altrettanti processi abbastanza campati in aria e che si conclusero con la sua condanna a morte. Era il 399 a.C. ma già da allora Socrate teorizzava che una persona è da considerarsi innocente sino alla condanna definitiva, che le prove devono essere addotte da chi accusa e non da chi si difende e  che, in mancanza di prove, una persona non può essere condannata e deve essere considerata innocente.

Sin da allora dettò i principi nei quali ogni studente di giurisprudenza schiuma il suo sudore, tutti fustigati dal severo Francesco Mercadante, professore di filosofia del diritto, e tutti protesi, a partire da Socrate, passando per Hobbes, Locke, Poitier, Rousseau, per finire al mio concittadino Capograssi, nel cercare di capire che uno Stato, nell’adottare tali principi sceglie, scientemente e consapevolmente, di preferire il rischio che un colpevole vada in giro piuttosto che un innocente sieda, anche per un solo giorno, in carcere.

Sacri principi, anzi sacrissimi, che invece Travaglio demolisce, calpesta, spiaccica nella melma e ostenta anche l’arroganza di chi si pone sullo scranno più alto della purezza e della ragione.

Devono essere loro a chiedere scusa…” per aver assolto dei colpevoli certi, ha detto il colpevolista a prescindere, dimenticando che si stava riferendo alla Cassazione e che la sentenza faceva il paio con quella della Corte d’Appello, quando, invece, quella decisione ha reso giustizia e dignità, per esempio, al Generale Mori, uno dei più efficaci e decisi avversari e combattenti contro la mafia.

Una frase e un modo di pensare che fa il paio con la pesca a strascico che certi pubblici ministeri, anche abbastanza mitizzati, fanno quando ordinano retate di tre, quattrocento persone, perché tanto una “decina che sono davvero colpevoli in mezzo ci capiteranno sicuro”.

Fa il paio con il “non poteva non sapere” che fece da teorema per la mattanza di mani pulite.

Fa il paio con il “concorso esterno in associazione mafiosa” che fece mettere sotto accusa chi i mafiosi li incontrava senza saperlo in mezzo a migliaia di persone presenti a un comizio o a una conferenza.

Insomma fa il paio con chi pensa che la giustizia sia un rituale sommario e non la strenua ricerca della verità perché l’importante è avere “un colpevole da linciare” e non “il colpevole” da condannare.

Quella brutta frase è la sintesi di un pessimo modo di pensare purtroppo condiviso da molti.

E merita una risposta. Che non può essere sommaria e rozza come loro sono stati, o meglio come lui è stato. La risposta vera, civile, riformista è discuterne, parlarne, convincere le persone che certi principi non sono negoziabili. Insegnare che il garantismo è un valore e non può essere bollato con il marchio della difesa e della ricerca dell’impunità. Chi è garantista non è complice di un delinquente. Non si tratta di aiutare un colpevole a sfuggire alla giustizia. Il fine, nobile, è di esigere che per condannare una persona bisogna rispettare tutte, ma proprio tutte, le regole che fanno funzionare le indagini e i processi, senza trucchi, senza scorciatoie, senza furbate e soprattutto cercando il colpevole, quello vero, e non uno qualunque che faccia da colpevole.

Si tratta di far comprendere alle persone che la giustizia non è un carnefice che fa scorrere la lama della ghigliottina per assetare la brama di sangue del popolo inferocito, ma un sistema che deve garantire la convivenza tra i cittadini.

Una brama di sangue che non è una roba di oggi ma è storia antica che si ripete nei secoli, apparteneva ai Romani che accalcavano il Colosseo e si affannavano al pollice verso, o alle genti che affollavano i patiboli per vedere cadere le teste durante il “terrore” di Robespierre, o che si attardavano a stuzzicare i piedi inermi delle streghe che penzolavano dai cappi.

Ma è anche la storia di un uomo giusto che nel pomeriggio di un venerdì, comparve davanti al Sinedrio per essere processato. Ma il popolo, assetato dallo stesso sangue, scelse Barabba, un ladrone, perpetrando la più grande ingiustizia della storia.

Travaglio era tra loro.