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“Sono un malato, non sono un consumatore”. Un ripensamento politico-costituzionale sulla sanità italiana

Giurista, saggista, editorialista
“Sono un malato, non sono un consumatore”. Un ripensamento politico-costituzionale sulla sanità italiana

Il racconto del ragazzo malato di morbo di Crohn (dovuto andare via dal pronto soccorso per poi operarsi privatamente) pubblicato da l’Espresso il 9 febbraio 2024, fa riflettere moltissimo: sia sul piano morale che pratico. Un racconto che non è slegato dalla questione sanitaria in quanto tale.

Se non fosse un film poco ci manca perché, a parte i documentari delle redazioni Tv più impegnate sul tema, ad esempio la vita di un operatore sociosanitario precario o di quel ragazzo affetto da morbo di Crohn hanno la stessa dignità dinanzi al diritto alla felicità.

Diritto, quest’ultimo, non enunciato nella Costituzione italiana per una ragione implicita: i Costituenti pensarono che gli italiani fossero affamati di felicità dopo l’epoca fascista e avendo, tra le mani, la Costituzione più bella al mondo.

Allora, le due esperienze precarie accennate (quella del ragazzo malato e dell’operato OSS) hanno un fil rouge comune: il passaggio del sistema sanitario dall’idea della speranza a quella di prestazione (ed è un cambio filosofico-politico di visione).

Un esempio su tutti di questa contorta visione delle cose è stata ed è la riforma del Titolo V della Costituzione fatta vent’anni fa: fu partorita dalla spinta vertiginosa di leghista memoria.

L’aver introdotto il concetto di prestazione di base (essenziale) e aver affidato alle Regioni la materia della tutela della Salute è il portato filosofico-politico di una certa idea “spartitioria” (si consenta il termine) che è alla radice del tradimento dell’idea stessa di Servizio Sanitario Nazionale.

Il tradimento è sotto gli occhi di tutti per due motivi almeno:

–          aver attribuito alle regioni il potere/dovere di garantire la tutela alla salute è stata una sciatteria costituzionale enorme atteso che di per sé il regionalismo sanitario è inconciliabile con l’idea universalistica del sistema voluto negli anni settanta (con gradi fatiche e conquiste);

–          aver destinato alla competenza nazionale solo la determinazione dei livelli essenziali di prestazione (LEP) sta a significare che, oltre al regionalismo sanitario, vi sarà un mercato sanitario spronato proprio dal fatto che, una volta garantiti i LEP, tutto il resto sarà appannaggio della libertà (non tanto) di trattazione dell’offerta sanitaria.

È su quest’ultimo fronte il problema principale dell’attualità perché, intanto, il regionalismo sanitario ha dimostrato di non poter garantire omogeneità sanitaria da Nord a Sud e viceversa (dati Agenas 2023) e, in secondo luogo, se ad oggi i LEP non sono stati individuati nonostante la riforma costituzionale del Titolo V ci sarà un motivo di fondo: l’inconciliabilità totale con la filosofia universalistica e piena del diritto alla salute previsto nell’art. 32 della Carta Costituzionale.

Inconciliabilità, quest’ultima, che non sta tanto nella esistenza tra settore pubblico e privato rispetto alla prestazione sanitaria in quanto tale dal momento che la concorrenza tra privati, in termini teorici, farebbe abbassare i prezzi (secondo l’art. 2, co. 2, lett. F) della direttiva UE n. 123/2006 “Bolkestein” rientrano nel regime di concorrenza comunitaria i “servizi sanitari, indipendentemente dal fatto che vengano prestati o meno nel quadro di una struttura sanitaria e a prescindere dalle loro modalità di organizzazione e di finanziamento sul piano nazionale e dalla loro natura pubblica o privata”), ma sta almeno in due chiavi di lettura: nel primo caso è un dovere assicurare l’assistenza (fine pubblicistico); nel secondo caso è un obbligo contrattuale assicurare la prestazione scelta dalla persona (fine privatistico).

Quindi ha ragione il ragazzo malato di morbo di Crohn quando dice a L’Espresso di sentirsi più un consumatore che un malato. Ha ragione perché è la percezione di chi per salvarsi la vita rischia di indebitarsi e invece, proprio perché lo Stato dovrebbe puntare ad assicurare livelli massimi crescenti (e non essenziali), si dovrebbe considerare che “o pubblico o privato” purché si salvi la vita e non subisca il dramma dell’indebitamento cronico (non siamo mica gli Stati Uniti d’America).

C’è, per l’effetto, un dovere di verità tra noi italiani: quella riforma del Titolo V è stata sbagliata e sappiamo benissimo chi sia il soggetto fomentatore di quella stagione politica e chi sia oggi ad usare la questione LEP, formalmente con l’idea di far pensare che si stia rispettando un dettato costituzionale, ma velando una conseguenza logica della loro normazione: il colpo di grazia all’universalismo sanitario.

Da mesi, ad esempio, Colturazione (che è un manifesto culturale nazionale che sta unendo gente da Sud a Nord e viceversa) tenta di sensibilizzare l’opinione pubblica e le Istituzioni sul tema (con una petizione e altre iniziative): fare la “riforma delle riforme” ovverosia cambiare quel Titolo V e ripristinare un disegno costituzionale degno della storica democratico-solidaristica di questo Paese.

Forse così potremo invertire il paradigma denunciato dal ragazzo malato di morbo di Crohn nell’idea costituzionale di esser certi che a quel malato, a quell’individuo, a quella persona, nessuno chiederà di andare da un’altra parte o di pagare cifre impossibili per la propria condizione economica.