Nello spazio Co-blogging di oggi, l’amica Gaia Raisoni riflette, con consueta lucidità, sul drammatico fatto avvenuto qualche giorno fa all’ospedale Pertini di Roma, ponendo l’accento sugli aspetti sociali e di gender parity, evidenziando inoltre alcune proposte che afferiscono al grande tema della famiglia nella società moderna.
Di Gaia Raisoni
Anche se è passato qualche giorno, quanto avvenuto all’ospedale Pertini di Roma invita a più di una riflessione. Dalla valutazione del personale medico-sanitario delle strutture pubbliche, alla difficoltà crescente di reperire infermieri e medici, necessari a coprire tutte le esigenze, fino alla questione più spinosa: il rooming-in e il ruolo della madre.
Ancora una volta, la comunicazione ha messo in pubblica piazza la madre. Perché la maternità è faccenda femminile. La vicenda ha dato il via sia ad un dibattito pubblico sia all’interno delle chat di whatsapp: le voci femminili che hanno vissuto la maternità si alzano per enfatizzare il problema che gira intorno ai tempi immediatamente successivi al parto, evidenziando che dopo l’emergenza Covid-19 i tempi di visita e di accesso del compagno/a o marito o moglie si sono ridotti così tanto, che la solitudine diventa la colonna sonora dei primi giorni dell’essere madre.
Da non madre, credo che ci sia tutta una vita per costruire (o distruggere) il rapporto madre-figlio/a: non saranno le ore immediatamente successive al parto a formare la personalità della persona che il neonato diventerà, ma sicuramente la gioia dell’essere madre non farà sparire il dolore fisico che la donna prova. Un dolore, insieme fisico e mentale, che non si esaurisce alla fine della permanenza in ospedale, ma che accompagna i primi mesi di vita della famiglia. Da qui l’intuizione di una giovane madre che alza la mano e dice: paternità obbligatoria per i primi due mesi del bambino.
Il discorso è interessante per almeno due aspetti: il primo è che si può discutere fino allo sfinimento se il numero di giorni post nascita in capo al padre siano troppo pochi, ma troveremo sempre padri che vedono il rientro al lavoro come una fuga dalla nuova routine. I primi mesi – anzi i primi istanti, secondo l’approccio rooming-in, sono necessari a costruire il rapporto con il proprio figlio; ma questo sembra valere solo per la madre. Con la paternità obbligatoria, si costruisce non un’alternativa, ma una squadra: i genitori vivono insieme le difficoltà e gli impegni che richiede il nuovo nato, se non alla pari, almeno con un maggiore bilanciamento.
Il secondo punto è che il cambiamento per essere reale deve essere interiorizzato dalla società: suocere e madri, datori di lavoro, clienti, papà. La paternità obbligatoria di due mesi può diventare le nuove quote rosa: uno shock all’inizio, un modo per velocizzare la carriera di alcune persone, ma non si può negare che siano state rivoluzionarie e – anche se non ancora superabili – nessuno può negare che hanno portato a quel cambiamento culturale che ha fatto accettare al mondo una donna in un ruolo apicale o hanno permesso una presenza femminile quantitativamente importante all’interno delle liste elettorali.
Come potrebbe il mondo aziendale – privato o pubblico, dove presente il lavoro dipendente, almeno in questa prima auspicata sperimentazione – gestire non solo l’assenza di una lavoratrice ma bensì due? Ci sono diverse possibilità: la prima che vedo è una programmazione degli stage e degli apprendistati in modo che la persona che andrà in paternità obbligatoria possa formare per un mese il giovane, che lo sostituirà per i due mesi in cui sarà assente dal lavoro. La persona in paternità obbligatoria avrà uno stipendio ridotto e la quota restante andrebbe ad integrare lo stipendio percepito dal tirocinante / stagista. Un giovane che ha un contributo aggiuntivo svolgerà meglio il suo lavoro e si impegnerà di più, non facendo “rimpiangere” il lavoratore principale.
In seconda battuta, si potrebbero immaginare sostituzioni a breve termine, in particolare per alcune professioni. Con questa formula si potrebbero integrare percettori di sussidi, giovani e meno giovani in recupero (carcere o comunità), NEET. Infine, attivare una vera rivoluzione, in quelle professioni ove possibile: superare il concetto del lavoro basato sulle 8 ore, 5 giorni su 7, aprendosi ad una modalità di lavoro per obiettivi, da raggiungere in tempi concordati tra le diverse parti coinvolte.
Le tragedie restano tali e meritano tutta la pietas di cui siamo capaci in quanto essere umani, ma sta a noi trasformarle in opportunità di cambiamento positivo affinché non siano vane: é tempo di mettere in discussione alcuni concetti cardine per aprirci al futuro. Nel mondo del lavoro, ma ancor di più all’interno dell’istituzione chiamata famiglia.
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