L'intervista
Bonifica del territorio ucraino, Batacchi: “Operazione di secondo ordine. La priorità è costituire un deterrente serio contro la Russia”
«Sminare l’Ucraina? Si può fare. Nella Guerra di Corea avevamo mandato un ospedale da campo. Che non ha certo cambiato le sorti del conflitto. Le urgenze sono altre». La polemica sull’invio di truppe italiane in Ucraina si è riaccesa. Ne è seguita una nuova, piccola crisi diplomatica tra Roma e Parigi. Con Pietro Batacchi, direttore di Rid, cerchiamo di capire cosa vorrebbe dire davvero un nostro impegno «boots on the ground».
Al netto delle tensioni tra Italia e Francia, se dovessimo partecipare a una missione in Ucraina, quali specializzazioni o competenze potrebbero mettere a disposizione le nostre Forze Armate?
«Prima di tutto, bisogna capire la configurazione della missione. Se si svolge direttamente sul suolo ucraino o nei Paesi limitrofi. Una differenza che incide molto sulla tipologia di personale e mezzi da inviare. Come riferimento potremmo prendere i contributi che diamo alla “Nato Vigilance Activity” (eVA, avviata nel 2022, operativa tra Ungheria e Romania, prevede lo schieramento delle truppe alpine italiane, ndr), che copre il fianco sud-est dell’Alleanza Atlantica. Guardando a questo scenario, per esempio, se parliamo di impiegare mezzi corazzati pesanti, la situazione è preoccupante per l’Italia e come per molti altri eserciti europei. Attualmente abbiamo circa 50 carri Ariete operativi».
Abbiamo soltanto 50 carri armati?
«Nominalmente sono di più. Circa 200. Molti sono stati cannibalizzati per pezzi di ricambio».
Sono pochi rispetto al passato?
«Sì, dopo la fine della Guerra Fredda le componenti corazzate e meccanizzate sono state drasticamente ridotte o smantellate. Noi abbiamo tuttora un programma di ammodernamento per circa 90 mezzi, ma è un processo che richiede tempo. Di fatto, il primo carro rinnovato è stato consegnato all’Esercito a luglio. Mentre i tempi di intervento richiesto sono molto più rapidi».
Anche per gli altri eserciti europei la situazione è simile?
«È una difficoltà generalizzata. Nella pratica, le capacità corazzate sono molto ridotte rispetto a quelle passate».
In questi giorni si è parlato anche di altri contributi. Più specifici. Per esempio lo sminamento del territorio. Questo sarebbe un ruolo possibile per l’Italia?
«Sì, ma obiettivamente si tratterebbe di operazioni di second’ordine».
La bonifica di un teatro di guerra per la sua messa in sicurezza è comunque importante.
«Nessuno mette in dubbio il supporto umanitario. Come altrettanto il valore tecnico dei nostri sminatori e del Genio. La priorità, però, è costituire un deterrente serio affinché la Russia ci pensi bene prima di agire di nuovo in futuro».
Lei parlava prima dell’Esercito. Dal punto di vista dell’aeronautica, quali sono le nostre potenzialità?
«Negli ultimi anni, c’è stato un investimento consistente nei programmi aeronautici. I costi sono più elevati e la Difesa vi ha destinato significative risorse del suo bilancio. Ora disponiamo di circa 90 Eurofighter, un velivolo affidabile e di alto livello, secondo solo all’F22 statunitense, con un tasso di utilizzabilità operativa molto elevato. L’Eurofighter è già stato impiegato nelle missioni della Nato nei Paesi dell’Est. A questo si aggiungono più di 30/40 F-35, che, come noto, raggiungono prestazioni inarrivabili in fatto di osservazione, ricognizione e Intelligence grazie a sensori e radar all’avanguardia. Quindi, dal punto di vista aereo, l’Italia può realmente fornire un contributo importante nelle operazioni. I nostri caccia sono impiegati da anni nelle operazioni di air policy dell’Est europeo. Questo vuol dire che non entreremmo in un teatro operativo nuovo».
Un eventuale intervento in Ucraina accelererebbe il processo Gcap, oppure questo viaggia su binari propri?
«Il Gcap (il Global combat air programme è un progetto congiunto, lanciato nel 2022 da Italia, Regno Unito e Giappone per sviluppare un caccia stealth multiruolo di sesta generazione, ndr) è già ben avviato, con i fondi allocati e non subirà mutamenti legati al conflitto russo-ucraino. In Italia, al battle lab Leonardo a Torino, centinaia di ingegneri lavorano su tecnologie come i gemelli digitali, l’autonomia e i droni gregari che supporteranno gli aerei. Non vedo come il conflitto possa intersecarsi in questo percorso».
Infine, considerando l’artiglieria e la difesa antiaerea, qual è la situazione?
«Anche in questo caso ci troviamo davanti a una coperta corta. Dopo la Guerra Fredda, sia l’artiglieria che la difesa antiaerea terrestre sono state fortemente ridimensionate. Il terreno perduto, purtroppo, non è qualcosa che si recupera rapidamente. Servono tempo e investimenti costanti. Un lavoro che porta a dei frutti non prima di un decennio. La guerra iniziata nel 2022, al contrario, richiede risultati immediati».
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