La presentazione di un libro che salta perché «la tensione sconsiglia di tenere l’evento» è un fatto di per sé grave. E triste. Eppure è successo. Ieri, a Roma. A seguito di polemiche nate sui social, l’editore (Edizioni Paoline) ha disdetto all’ultimo minuto un dibattito sulla cultura ebraica. Argomento religioso diventato improvvisamente incandescente malgardo non riguardi né la politica israeliana, né Netanyahu, né le operazioni su Gaza. Ne abbiamo parlato con l’interessato: il rabbino Fabrizio Chaim Cipriani, intellettuale poliedrico, violinista e guida dell’ebraismo conservative in Italia.

Il suo ultimo libro, La vita, le feste, gli incontri e la saggezza di un rabbino ai nostri tempi (San Paolo), è appena uscito. Che libro è?
«È un testo che racconta le feste ebraiche in chiave spirituale, intrecciandole con aneddoti di vita rabbinica. Nasce dai miei viaggi, dalle esperienze di frontiera e dal desiderio di riflettere sulle risonanze che queste ricorrenze possono avere oggi. Non è un libro politico, né legato all’attualità: cerco di occuparmi di cose eterne, mentre la cronaca è passeggera».

Eppure la presentazione romana, insieme al teologo Vito Mancuso, è stata annullata. Perché?
«Per ragioni di sicurezza. Le edizioni San Paolo hanno ricevuto pressioni, le forze dell’ordine hanno consigliato prudenza. Un’occasione di dialogo interreligioso è andata persa. Non è la prima volta: era già accaduto con il libro Genesi di Haim Baharier. In alcuni casi si respira un clima che scoraggia la voce ebraica».

Sta dicendo che c’è una volontà di silenziare gli ebrei?
«Nel mio caso non credo ci sia stato un progetto deliberato. Ma sui social, prima ancora dell’evento, molti hanno scritto che non si doveva tenere, che le voci ebraiche non andavano ascoltate. Alla cancellazione hanno reagito con un senso di trionfo. Questo è il problema: si crea un precedente. Oggi qualcuno dirà: vedete, un rabbino è stato già silenziato, continuiamo così. È un messaggio pedagogicamente devastante per la società».

Lei parla di uno “stato di tensione permanente”. Cosa significa?
«Che l’identità ebraica, oggi, si vive in semi-clandestinità. Io porto la kippah e subisco regolarmente aggressioni verbali e fisiche. Il rifiuto di vedere e ascoltare gli ebrei esiste, e ogni cedimento a queste pressioni diventa una vittoria per chi grida più forte. La nuova normalità fatta di paura e rinunce è una patologia: non deve essere accettata».

Le autorità però hanno poi riaperto uno spiraglio, garantendo sicurezza.
«Sì, con grande disponibilità. Alcuni funzionari hanno parlato di “sconfitta”: si è perso un momento di dialogo reale tra mondi diversi, quello con Vito Mancuso. La tensione è stata mal gestita. Capisco che non tutti abbiano la stessa abitudine a vivere certe pressioni, ma per noi ebrei questa condizione non può diventare normale».

E lei non si è arreso.
«No, sono venuto a Roma lo stesso. Ho incontrato piccoli gruppi di lettori, in contesti informali. Amo le situazioni porose, con pubblici misti, e credo nel valore del dialogo, anche con chi ha posizioni diverse dalle mie. Ho invitato Mancuso proprio per questo: molti ebrei non lo avrebbero fatto, viste le sue tensioni con parte della comunità.
Io penso invece che ogni voce debba potersi esprimere. Ogni volta che una voce tace, vincono gli inquisitori. E le inquisizioni esistono in tutte le religioni, in tutti i sistemi».

Che cosa si perde quando prevale la paura?
«Si perde libertà, si perde cultura. Io amo parlare dei miei libri, incontrare chi ha domande, anche critiche. Se rinunciamo, facciamo solo il gioco di chi vuole imporre il silenzio. Il boicottaggio culturale, economico o materiale non funziona mai: alimenta solo tensioni e paure. La vera sfida è educare a una società libera, in cui nessuno possa vantarsi di aver spento la voce dell’altro».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.