L'esigenza di un Costituzionalismo 2.0
Cittadini e parlamentari liberi nelle proprie interazioni digitali
L’esigenza di neoregolamentare le attività digitali può essere un’opportunità anche nella logica dell’equilibrio tra i poteri dello Stato
L’impressione che proviamo a condividere con il lettore è quella di una Corte costituzionale che su un tema molto delicato, la libertà di comunicazione dei cittadini e dei membri del Parlamento, sembra dialogare con se stessa in tempi ravvicinati. Il 2023 è stato l’anno nel quale il giudice costituzionale ha adottato tre sentenze che da prospettive diverse sono chiamate a riallacciare i nodi dei non sempre cordiali rapporti tra tecnologia e diritto. Tre tematiche differenti con profili comuni, tre relatori differenti con formazioni diverse e tre esiti che ci dicono quale è il tema principale che dovrà affrontare il costituzionalismo italiano: la libertà di corrispondenza, per quanto estesa dalla lungimiranza dei Padri Costituenti “ad ogni forma di comunicazione”, è in grado di resistere alla discontinuità tecnologica radicale dell’ecosistema digitale? Soprattutto, l’impianto costituzionale vigente è in grado di tutelare lo “spazio vitale” dell’individuo digitale nella sua sfera privata così come nell’esercizio di funzioni pubbliche quali l’espletamento del mandato parlamentare?
Andiamo per ordine. I nostri costituenti scrissero lo statuto delle libertà quando, in ragione di quel contesto tecnologico, all’utilizzo ogni mezzo materiale corrispondeva l’esercizio di un puntuale diritto. Spedisci una lettera? Siamo nella libertà di corrispondenza. Parlavi alla radio? Siamo nella libertà di manifestazione del pensiero. Vi era sostanzialmente un ordine materiale degli accadimenti che consentiva di sussumere, più o meno agevolmente, ogni atto comunicativo, orale o scritto, in fattispecie normative in grado di descrivere ed ordinare in maniera sufficientemente chiara ed adattiva la realtà fenomenica della comunicazione.
Oggi molto è cambiato in ragione della digitalizzazione di gran parte della nostra vita la cui cifra è l’incorporazione progressiva e reciproca tra mezzo tecnico e persona: come non ha mancato di sottolineare la sentenza apripista della trilogia (sent. numero 3 del 2023-relatore Zanon), gli smartphone assottigliano fino a cancellare discrimen tra comunicazione interpersonale e comunicazione rivolta alla generalità, tra ciò che è personale e ciò che non lo è, tra libertà di comunicazione e libertà di espressione intesa tanto come diritto individuale, quanto diritto sociale.
Una pluridimensionalità del mezzo di cui prende chiaramente atto il tribunale federale tedesco già nel 2008, che (come segnalato da Rodotà) sembra tratteggiare “la garanzia della confidenzialità e dell’integrità del proprio sistema tecnico informativo” come espressione di un nuovo diritto della personalità (BVerfG, NJW, 2008, 822).
È finita, infatti, l’epoca in cui ad ogni mezzo tecnico poteva ricondursi l’esercizio di determinata libertà: oggi alla stessa onnicomprensiva tecnologia corrispondono molte delle tradizionali libertà. Se attraverso lo smartphone, appendice del corpo e determinante per le relazioni interpersonali, esercitiamo una pluralità di diritti e libertà, il giurista ha due alternative per riportare ad ordine quanto accade: scomporre tutte le attività e ricondurle alle tradizionali casistiche degli articoli 15 e 21 della Costituzione oppure costruire una nuova libertà da intendersi quale diritto dell’individuo ad interagire nella ecosfera digitale con tutte le attività che la tecnologia attuale consente. Dovremmo avere il coraggio di apprestare a livello costituzionale la tutela di una posizione giuridica nuova, che scevra dalla catalogazione aprioristica del passato, permetta agli esseri umani di estrinsecare la propria personalità e di definire la propria identità con le stesse garanzie anche nella dimensione ibrida dell’onlife. Quella dimensione che vede la gran parte delle relazioni interpersonali svolgersi nell’intreccio inscindibile tra il corporeo e l’incorporeo del dato digitale.
D’altronde la recente sentenza 170 sul conflitto costituzionale del Senato per il caso Renzi, scritta con la penna attenta di un maestro del diritto costituzionale italiano, rappresenta il nobile tentativo di mettere ordine in quest’ibridazione di concetti e prospettive, dove le regole tradizionali possono certamente garantire quote di diritti, ma faticano non poco a tutelare nell’interezza la sfera giuridica individuale; apprezzabilmente il relatore Modugno distingue tra le fattispecie di sequestro documentale e sequestro di corrispondenza e ancora tra quest’ultima e la disciplina dell’intercettazione, le cui complesse vie che segnano la distinzione tra captazione diretta e indiretta dei parlamentari, erano state già percorse dalla Corte con la sentenza n. 157 (relatore Petitti, con esiti che ha ben descritto Salvatore Curreri su L’Unità il 2 agosto).
Dobbiamo chiederci se la via da percorrere sia quella dell’impegno arduo, sentenza per sentenza, di un giudice costituzionale che divide nel grande cesto delle possibilità relazionali digitali le caramelle per gusto e forma oppure se non sia giunto il momento di dare alla dimensione digitale un rifugio costituzionale adeguato, ben oltre l’ormai tautologico e parziale diritto all’accesso ad Internet.
Dovremmo parlare di un vero e proprio diritto a viverci in Internet e vivendoci di veder garantite tutte le libertà spettanti alla persona anche sul piano identitario. Oltre ad agire nel mondo reale del corpo agiamo nel mondo reale del digitale attraverso tutte le dimensioni del possibile aperte da un mezzo poliedrico, pluridimensionale e per questo insostituibile (sent n. 3/2023) come la smartphone. Una nuova rete di interazioni digitali va a comporre ed espandere il nostro spazio relazionale, pubblico e privato, lavorativo e familiare, che diventa difficilmente scomponibile in quota parte e in singole azioni giuridicamente distinte.
La pluridimensionalità strutturale della dimensione digitale, com’è stato sottolineato dalla Corte stessa, fa sì che l’interdizione all’accesso provochi effetti generali in grado di impattare direttamente sulla resilienza degli stessi istituti democratici. Si pensi alla funzione pubblica e politica: non dimentichiamo come il giudice ordinario nei casi di chiusura dei siti e dei profili social (deplatformization) di alcuni partiti non abbia rinunciato a sottolineare i rischi di espulsione consequenziale dal sistema politico (con evidenti ricadute anche sulla libertà di espressione nella sua dimensione passiva tutelata dall’art 21 e quindi sul pluralismo informativo) vista la centralità della presenza “comunicativa” digitale. Aspetto questo che non fa che rimarcare il ruolo infungibile della dimensione digitale per cui ogni limitazione relativa al medium si traduce in una compressione sostanziale di una pluralità di diritti: “Esiste (…) un limite, superato il quale la disciplina che incide sul mezzo – in ragione del particolare rilievo che questo riveste a livello relazionale e sociale – finisce per penetrare all’interno del nucleo essenziale del diritto, determinando evidenti ricadute restrittive sulla libertà tutelata dalla Costituzione”. (sent 3 -2023).
Se, come riconosciuto dalla la Corte nella sentenza leading-case (3-2023), gli ambiti interessati dal diritto di comunicazione digitale sono “almeno” quelli della vita lavorativa, economica, familiare e personale, ne consegue che il profilo comunicativo retroagisce in realtà ad un’ampia gamma di situazioni soggettive a loro volta coperte da guarentigie costituzionali rinvenibili non solo nei rapporti civili, ma anche nei rapporti economici, etico-sociali e prima ancora nei diritti fondamentali.
Una tale e diversa estensione del diritto alla comunicazione non può non richiedere, allora, anche una nuova riflessione sul rapporto che intercorre tra art.15 e il terzo comma dellart.68 Cost. alla luce della specifica ratio alla base del regime derogatorio previsto. Il dettato costituzionale tutela infatti specifici atti in grado di incidere sullo svolgimento del mandato elettivo dei membri del Parlamento, che come sottolineato dalla Corte nella sentenza 170, non è possibile interpretare estensivamente, proprio in ragione della deroga al principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione che la disposizione prevede.
Se però la digitalizzazione traduce le esistenze individuali in data relationships attraverso la conversione contestuale in dati tramessi o trasmissibili di tutti gli aspetti che perimetrano lo spazio relazionale degli individui, non ne è di certo immune lo spazio necessario all’esercizio del mandato parlamentare che subisce il medesimo cambio di paradigma: l’ibridazione non può che coinvolgere allora l’esplicazione della funzione nella sua interezza.
Detto altrimenti il quesito da porsi a questo punto è: quali atti dobbiamo considerare “particolarmente suscettibili di incidere sul mandato elettivo” da richiedere le guarentigie offerte dal regime di immunità di cui all’art.68 comma III?
Se è vero che il dettato costituzionale è ben lungi dall’apprestare una generica e indiscriminata immunità a garanzia della riservatezza strictu sensu del parlamentare, è anche vero che non è questo l’unico aspetto a venire in rilievo quando parliamo di atti e documenti digitali che, come sottolineato dalla Corte, non possono essere trattati con la stessa logica dei documenti tradizionali oggetto occasionale di comunicazione e che invece oggi sono sia oggetto che prodotto della comunicazione stessa.
Dobbiamo allora rimettere in linea gli articoli 15 e 68 della Costituzione liberando il primo da una descrizione troppo parziale delle attività relazionali digitali e rafforzando il secondo oltre le semplici fattispecie della intercettazione e del sequestro visto che la comunicazione digitale, che in virtù del carattere contestuale e sincronico, corre il rischio di trasformarsi istantaneamente in “documento storico” incorporato nel device, esorbitando in questo modo dalla tutela apprestata dall’art. 15 anche nella sua attuale formulazione, e questo non certo per il venir meno dell’interesse attuale all’integrità della sfera personale e relazionale necessaria all’espletamento del mandato.
Per dirla con Tommaso Edoardo Frosini serve un Costituzionalismo 2.0 che dia dignità costituzionale all’agire umano digitale sollevando i giudici e anche la Corte costituzionale dalla lodevole, ma sempre faticosa e incerta, attività di sistemazione organica. D’altronde la sentenza numero 3 che ampliava l’orizzonte del ragionamento sembra essere confermata dalla 153 nella presa d’atto della complessità della distinzione delle attività, per chiudere con una mediazione nella numero 170 che se da un lato conferma la preziosa funzione della Consulta, dall’altro ci consegna i segnali di un profilo problematico che spetta al legislatore costituzionale con coraggio dirimere.
Dopo anni di populismo nei quali il Parlamento ha rinunciato a costruire adeguati argini di difesa dell’equilibrio fra i poteri dello Stato (dal 1993 con la riforma dell’autorizzazione a procedere fino alla normativa primaria che ha demonizzato l’attività politica ponendo l’accento sui temi corruttivi) questa esigenza di neoregolamentare le attività personali digitali può costituire un’opportunità anche nella logica dell’equilibrio fra i poteri dello Stato e in particolare fra il Parlamento e la Magistratura.
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