Quando si parla di moneta digitale, l’immaginario collettivo corre subito a Bitcoin o alle valute digitali di banca centrale (CBDC), come lo yuan elettronico di Pechino. In realtà, la vera rivoluzione che sta ridisegnando i rapporti di forza monetari globali è molto meno rumorosa e molto più sofisticata: si chiama stablecoin. Questi token digitali, ancorati al dollaro e regolati attraverso blockchain pubbliche, sono diventati lo strumento privilegiato della nuova diplomazia finanziaria americana. È ciò che possiamo definire senza mezzi termini “redollarizzazione”: un processo con cui Washington, anziché subire l’ascesa della finanza digitale, la piega al proprio vantaggio, rilanciando la supremazia del dollaro in un contesto geopolitico frammentato.

Vecchie strutture in nuovi abiti

A prima vista, le stablecoin potrebbero sembrare una novità radicale. In realtà, esse non sono che la riproposizione digitale di schemi già visti: dai money market funds ai circuiti di pagamento privati come PayPal, fino ai currency board. Si tratta sempre di meccanismi “ombra” che aggirano il sistema bancario a due livelli, offrendo strumenti alternativi di liquidità e riserva. La differenza, oggi, è la blockchain: il passaggio diretto da wallet a wallet senza bisogno di banche commerciali. Una logica che riecheggia il mercato eurodollari, nato negli anni ’60 proprio per scavalcare i controlli americani. Ancora una volta, la finanza reinventa sé stessa con la tecnologia.

CBDC: da moda a fallimento

In parallelo, il grande progetto dei CBDC si è sgonfiato. Dalla Cina all’Europa, passando per Nigeria e Bahamas, le valute digitali di Stato si sono rivelate strumenti rigidi, poco attraenti e spesso mal tollerati dall’opinione pubblica per il rischio di sorveglianza totale. La stessa Federal Reserve ha preso tempo, mentre l’Europa continua ostinatamente a spingere sul “digital euro”.

La svolta regolatoria americana

Mentre le CBDC arrancano, gli Stati Uniti hanno imboccato una strada diametralmente opposta con il GENIUS Act: una legge che impone alle stablecoin un ancoraggio totale (100% di riserve) a titoli sicuri, principalmente Treasury. L’obiettivo è duplice: legittimare l’emissione onshore e allo stesso tempo creare domanda strutturale per il debito pubblico Usa. Si tratta di una mossa di straordinaria astuzia: anziché obbligare le banche a comprare titoli di Stato, Washington costruisce un sistema di incentivi e regolazioni che rende spontaneo per il settore privato farsi carico del collocamento del debito.

La nuova geoeconomia del dollaro

Il risultato è la costruzione di una vera e propria “megastruttura del dollaro”. Le stablecoin, alimentate dal mercato e rese sicure dal quadro normativo, diventano un veicolo per:
• garantire una domanda permanente di Treasury;
• riportare onshore la gestione della liquidità globale, sottraendola alla Cina;
• offrire al Tesoro americano nuove opportunità fiscali, dato che gli interessi maturati sulle riserve non finiscono più all’estero ma vengono tassati negli Stati Uniti.
È un nuovo tipo di repressione finanziaria, meno visibile e più sofisticata, che trasferisce sul privato – banche, fintech e utenti finali – l’onere di sostenere le finanze federali.

Il timore di Pechino

Per la Cina, questo scenario rappresenta una minaccia diretta. Le stablecoin in dollari, soprattutto se emesse da banche americane e garantite dal governo, scavalcano i controlli sui capitali e offrono agli esportatori cinesi un mezzo di pagamento liquido, anonimo e incontrollabile dal Partito comunista. Da qui l’attivismo di Pechino su due fronti:
1. e-CNY, la valuta digitale di Stato, che però stenta a decollare nonostante gli incentivi e rimane un oggetto di scarso appeal per imprese e consumatori;
2. Hong Kong come laboratorio, dove è stato approvato il primo “Stablecoins Bill” che autorizza emissioni di token ancorati sia al dollaro di Hong Kong sia al renminbi offshore (CNH). Un esperimento che consente a Pechino di studiare senza smantellare i controlli interni.
Ma il problema è strutturale: il dollaro digitale offre al mondo ciò che lo yuan non può dare, ovvero liquidità illimitata, fungibilità globale e anonimato relativo. È la combinazione tra la solidità del dollaro e la leggerezza della blockchain, una miscela che rischia di spiazzare definitivamente la proiezione internazionale della valuta cinese.

Il mondo sta entrando in una nuova fase di competizione monetaria digitale. Non sono i CBDC, come molti credevano, a guidare il cambiamento, ma le stablecoin private, legittimate dal quadro regolatorio Usa e sostenute da un immenso mercato di Treasury. Gli Stati Uniti hanno trasformato un potenziale fattore di destabilizzazione in un pilastro della loro egemonia fiscale e geopolitica. Per la Cina, l’alternativa è accettare la sfida, spingendo su un modello di stablecoin statale e iper-controllata. Ma il rischio è evidente: il confronto tra libertà e controllo, tra apertura e repressione, si gioca ormai direttamente sulla natura stessa della moneta. La partita è appena cominciata, ma una cosa è chiara: il dollaro, anziché indebolirsi, ha trovato nella finanza digitale un nuovo corpo, più agile e ancora più pervasivo.