L’ affaire Crosetto, la sua denuncia per la divulgazione di dati personali relativi alla sua attività di consulente privato, ha assunto dimensioni ciclopiche, ma non inaspettate. C’era, forse, da aspettarselo che l’esplorazione in profondità degli accessi alle numerose banche dati a disposizione della Procura nazionale scoperchiasse una pentola ribollente di sospetti, di retropensieri, di opacità, in grandissima parte ingiustificati. La risposta del perché questo accada riposa per intero sull’essenza stessa di quelle attribuzioni all’ufficio di via Giulia, nel fatto che la Procura nazionale è probabilmente l’unica articolazione giudiziaria al mondo che disponga di una propria autonoma, autogestita, autoalimentata banca-dati in cui sono convogliate molti altri sistemi telematici di raccolta di informazioni che possono lavorare sinergicamente. Come tutte le cose importanti di questo paese nel settore del contrasto alle mafie, anche questa organizzazione informatica centralizzata deve la sua nascita all’intuizione lungimirante di Giovanni Falcone che, nel 1991, ebbe a realizzare un antico progetto risalente addirittura al 1984 (“Per una banca dati giudiziaria”, in G. Falcone, “Interventi e proposte 1982-1992”, Milano, 1994, pag. 79).

Gli atti

Una banca dati a disposizione dei magistrati inquirenti e consultabile, su loro autorizzazione, anche dalle forze di polizia rappresenta uno dei capisaldi dell’autonomia dell’ufficio del pubblico ministero in Italia e per un nugolo reati di amplissima rilevanza, ben oltre le sole associazioni mafiose o terroristiche. Il potersi approvvigionare direttamente di atti, di notizie, di informazioni provenienti da migliaia e migliaia di processi, contenuti in una quantità sterminata di intercettazioni, di misure di prevenzione, di verbali di pentiti, di informative di polizia, di segnalazioni di operazioni finanziarie sospette e di molto, molto altro ancora, è una risorsa ineguagliabile. Atti catalogati, analizzati, posti in relazione reciproca da appositi software e autogestiti da proprio personale appositamente distaccato (come il sottufficiale indagato da Perugia), costituiscono il piedistallo da cui si erge l’autosufficienza informativa della Procura nazionale e delle 26 procure distrettuali del paese. Una cosa, si ripete, da far invidia ai pubblici ministeri di mezzo mondo.

Chi lavora nell’ombra

È evidente che questa attività di raccolta, analisi e trasferimento dei dati e degli atti in indagini penali o in processi di prevenzione si nutre anche dell’intuizione degli operatori, della loro intelligenza investigativa, della capacità di individuare link e piste che derivano proprio dalla connessione delle informazioni. Verità nascoste restituite alla luce dalla sovrapposizione di dichiarazioni, di pedinamenti, di conti bancari, di intestazioni proprietarie e molto, molto altro. Così l’attività giudiziaria diviene attività di intelligence, di ricostruzione, di esplorazione. Il rischio di abusi è sempre dietro l’angolo, qualche mela marcia è sempre possibile. Si vedrà e si sentirà la voce degli indagati finora silenti in pubblico. Un pericolo è, tuttavia, dietro l’angolo. Se si pongono limiti stretti, paletti invalicabili, se si attuano controlli meticolosi e si richiedono autorizzazioni e nulla-osta, tutto questo mondo vitale rischia di inaridirsi e la banca-dati voluta da Falcone potrebbe diventare una mera raccolta di atti, una semplice sedimentazione di notizie priva di una capacità propulsiva e della forza di tracciare nuove vie per le indagini e per la prevenzione sul territorio nazionale. In una fase della lotta alle mafie in cui si sente parlare con fervore di indagini sul pizzo imposto agli ambulanti, sulla distribuzione del pane nei supermercati, sull’irrigazione dei campi coltivati senza che nulla si sappia delle nuove ingerenze mafiose, dei nuovi centri di potere occulto, azzoppare l’attività delle procure antimafia su questo versante sarebbe davvero grave. L’autonomia della magistratura inquirente necessita di quell’autonomia informativa e della libertà di sperimentare legami, cointeressenze, alleanze nell’ombra. Certo si può sbagliare, certo l’intuizione dell’investigatore informatico può fallire, ma l’urgenza non è quella di imbrigliare questo approccio indispensabile e moderno nel contrasto alla criminalità organizzata, questa spinta nel tracciare “nuove vie”, ma piuttosto quella di impedire che i risultati di queste attività esondino verso i giornali o, peggio ancora, verso compiacenti committenti desiderosi di coperture o ricattabili. Ma questo è un altro discorso