“Germania anno zero” è un film di Roberto Rossellini del 1948 dove viene raccontata la vita di Edmund, un bambino tedesco dodicenne, che si aggira sperduto tra le macerie di Berlino nel 1946 allo scopo di racimolare qualche moneta per aiutare la famiglia devastata dalla guerra. Alla fine, dopo aver provato ogni tipo di abbruttimento (persino l’avvelenamento del padre malato e invalido), Edmund si suicida. È singolare che Rossellini, il cantore della Resistenza, dopo aver girato i due capolavori (Roma città aperta nel 1945 e Paisà nel 1946) che hanno reso immortale quella epopea, abbia voluto portare sugli schermi il dolore dei vinti con un sentimento di pietas, che allora, forse, non venne ben compreso, nonostante i riconoscimenti tributati a quel film.

Non ricordo se qualcuno scrisse – come è avvenuto in un caso recente – che Edmund era il simbolo di tutti i bambini morti durante la Seconda guerra mondiale; era ben chiaro, però, di chi fossero le responsabilità di quelle macerie e di quelle condizioni di vita. Nessuno osò dire che gli alleati in Germania si erano comportati come i nazisti e che erano responsabili della morte di tante donne e bambini, caduti sotto i bombardamenti a tappeto che uccisero milioni di civili (innocenti come i gazawi). Rossellini volle chiarirlo nel messaggio di apertura del film. «Quando le ideologie si discostano dalle leggi eterne della morale e della pietà cristiana, che sono alla base della vita degli uomini, finiscono per diventare criminale follia. Persino la prudenza dell’infanzia ne viene contaminata e trascinata da un orrendo delitto ad un altro non meno grave, nel quale, con la ingenuità propria dell’innocenza, crede di trovare una liberazione dalla colpa».

Se la seconda parte della frase spiega la trama di Germania anno zero, la prima esprime un giudizio di valore universale che, nel caso della Germania, suona così: a rendere inaccettabile la vita per un bambino di dodici anni non sono state le bombe delle fortezze volanti, ma quelle ideologie che – come il nazismo – si discostano dalle leggi eterne della morale e che hanno reso necessari dei sacrifici umani per essere sconfitte. Così è anche oggi: i 70mila palestinesi (di cui 20mila bambini) denunciati come morti da Hamas, sono vittime di chi ha voluto e promosso questa guerra, per obiettivi non meno abietti di quelli del III Reich. Per portare la libertà e la democrazia in Europa e per sconfiggere i mostri generati dal sonno della ragione, sono stati necessari i soldati, i panzer, le bombe. In quest’ ambito la responsabilità della tragedia di Gaza si spiega con una frase attribuita a Golda Meir, la grande statista israeliana: “Potremo perdonarvi di avere ucciso i nostri bambini, ma non vi perdoneremo mai di averci costretto ad uccidere i vostri”. Per inciso, spero che i pro-Pal abbiano osservato in quei pochi attimi che le tv ci hanno consentito di vedere, le esecuzioni sommarie del “Ku Klux Klan di Hamas” di civili palestinesi.

Passando oltre, in questi ultimi giorni mi sono ricordato di un fatto che mi sembra molto significativo alla luce della demonizzazione in corso non solo di tutti gli israeliani, ma anche degli ebrei della Diaspora. Quale è la canzone popolare che in Italia ha affiancato la mobilitazione per il Vietnam e che appartiene ancora alla memoria collettiva? “C’era un ragazzo…” di Gianni Morandi. Anni fa in una trasmissione tv indussero persino Massimo D’Alema ad accennare alla prima strofa. La vittima di quella tragedia è appunto un giovane americano, giramondo unito di chitarre e amato dalle donne, costretto da una lettera che lo richiama in patria per andare in Vietnam a sparare con la mitraglia ai vietcong.

Allora, tutti erano in grado di capire quanto fosse importante -per il successo di quella lotta – il fronte interno degli Usa: quello che costrinse Lyndon Johnson (il presidente che completò il disegno di John Kennedy sui diritti civili) a non ricandidarsi alle elezioni. Persino un cantore della contestazione come Rodolfo Assuntino – colui che voleva buttare a mare le basi americane. in alcune sue canzoni ricordava allo “Zio Sam” che anche in America stava nascendo un’età della ragione pronta a prendere la parola.