«Grazie Italia!» Così si è concluso il bilaterale di ieri a Palazzo Chigi tra Giorgia Meloni e Volodymyr Zelensky. È difficile rintracciare un altrettanto entusiasmo espresso dal presidente ucraino verso un suo alleato a conclusione di un incontro bilaterale. Per Kyiv, Roma è più di un interlocutore irrinunciabile. È un’amica. Su cui l’Ucraina può contare per il sostegno militare oggi e nella ricostruzione domani. Ma, cosa ancora più importante, per il rapporto preferenziale che Meloni vanta con la Casa Bianca. «Apprezziamo il ruolo attivo dell’Italia nel generare idee concrete e definire misure per avvicinare la pace», ha aggiunto Zelensky su X/Twitter. «Ho informato Meloni sul lavoro del nostro team negoziale e stiamo coordinando i nostri sforzi diplomatici».

Di fronte a un’Europa garante di Kyiv, ma poi si mostra divisa, viene da osservare quanto sia stato meglio per la premier italiana non aver preso parte al summit dei volenterosi a Londra lunedì. Ricevere il leader ucraino a casa propria le ha permesso di confermare il ruolo del nostro Paese. A fianco di Kyiv, sì, ma prima di tutto alleata degli Stati Uniti. Come lo è anche l’Ue. L’ha detto la stessa Kaja Kallas. Tutto questo Zelensky lo ha ben chiaro. Ed è per lui un vantaggio avere qualcuno che abbia una linea diretta con Washington. Un rapporto di confronto e non di concorrenza. Come invece appare la posizione di Macron, Merz e Starmer. La premier sa che, con un piano di pace su cui negoziare, bisogna concentrarsi su quello e migliorarlo a vantaggio di una popolazione ucraina schiacciata da quattro anni di guerra.

«Sui negoziati mi fido di Meloni» ha fatto trapelare lo stesso Zelensky ieri a bilaterale in corso. I famosi 28 punti scontati a 20 restano la bozza su cui trattare con Mosca. Attenzione. Non siamo vicini a un accordo. Sempre nel pomeriggio, dal Cremlino è arrivato l’ennesimo monito: «Il Donbass è territorio russo, è un fatto storico», ha detto Putin. «Faceva parte della Russia sovietica, ma Lenin cambiò idea e lo cedette all’Ucraina». Nel caso fosse ancora necessario, sono parole che confermano le ambizioni imperialiste del Cremlino. E che indicano quanto sia lontana la strada di un accordo. Nel gioco dei ruoli, si può immaginare che a Trump spetti ammansire Putin. Mentre a Zelensky tocca presentare le sue condizioni, stabilite dopo il vertice di Londra e l’incontro con Meloni.

In questo tentativo di Roma di trovare un accordo, le parole del cancelliere Merz giungono come una stecca: «Non vedo alcuna necessità che gli americani ora vogliano salvare la nostra democrazia in Europa. Se ci fosse la necessità di salvarla, ci arriveremmo noi da soli», ha detto il leader tedesco, commentando il piano strategico di sicurezza Usa. Berlino sta virando verso una posizione da falco. Come ha già fatto Parigi. Conviene? Gli assoli delle piccole nazioni europee, presuntuose del proprio passato, risultano sempre più fuori luogo. Anzi, rischiano di compromettere l’intero negoziato. Di conseguenza, è lecito chiedersi cosa convenga di più all’Italia. Se continuare a sostenere la resistenza ucraina, punto e basta, oppure se adottare una vision più lunga. Alla difesa e alla sicurezza, bisogna aggiungere altre componenti di cui il sistema Italia è esemplare, cooperazione e peacekeeping. Prima o poi, dovrà avviarsi la ricostruzione del Paese.

Da qui, sebbene provocatoria, la richiesta di elezioni da parte di Trump. Il binomio Zelensky-Barnum, come ha detto il presidente Usa, paragonando il leader ucraino all’imprenditore circense più famoso d’America, è una nuova stoccata. Zelensky non ha potuto che abbozzare: «Sono sempre pronto alle elezioni», ha detto. Dimostrandosi consapevole della propria debolezza politica. Quanto può reggere infatti Zelensky, screditato com’è dallo scandalo corruzione che ha falciato di netto il suo cerchio magico? Ricostruzione dell’Ucraina vuol dire anche ricostruzione politica. All’insegna della trasparenza e della democrazia. Come vuole l’Europa.