Grazie a Dio, ecco un altro Simenon: ed è tra i più belli degli ultimi tempi
“La morte di Auguste”, la guerra stupida e senza umanità tra fratelli a caccia dell’eredità del vecchio padre
Un altro Simenon? Sì, un altro Simenon. E grazie a Dio. Ossigeno puro che sempre ritempra l’animo del povero lettore, sballottato di qua e di là tra altissime cataste di romanzi inutili: con Georges Simenon invece non si sbaglia mai. Semmai, il suo affezionato cultore potrà ogni volta chiedersi se sia più bello l’ultimo, o quello prima o quello ancora precedente: un gioco raffinato, e del tutto personale. E allora, stando a questo gioco, questo “La morte di Auguste” (Adelphi, traduzione di Laura Frausin Guarino) si colloca obiettivamente tra i migliori “Simenon non Maigret” usciti in questi ultimi tempi.
Brevemente, la storia, come sempre esile e robusta al tempo stesso (come facesse a realizzare questo ossimoro, lo scrittore belga, lo sa solo lui). Siamo dopo la guerra nel “ventre di Parigi”, come lo chiamò Zola, cioè nella zona del vecchio immenso mercato di Les Halles (da anni è una roba moderna di negozi di ogni tipo), ambiente duro, contadini, macellai, commercianti. Lì si trova il ristorante “alverniate”, sempre gli stessi piatti (carne, carne!), di Auguste Mature che lo gestisce insieme al figlio Antoine. Negli anni, gli affari sono andati bene grazie al loro duro lavoro. Un giorno come gli altri, il vecchio Auguste muore lì, nel ristorante; sopra ovviamente c’è la casa dei Mature. La salma viene depositata sul suo letto, la moglie non si accorge di nulla: non intende da tanto tempo.
A questo punto parte la storia. Che ruota intorno alla questione: dove avrà messo i soldi il vecchio padre? Qui entrano in scena i due fratelli di Antoine, il grigio magistrato Ferdinand e lo scapestrato Bernard: e tra i fratelli si apre un contenzioso avvolto nel mistero perché, appunto, non si sa dove sia finita e a quanto ammonti l’eredità, che s’immagina essere cospicua, di Auguste. In questa diatriba verrà fuori il peggio del peggio, soprattutto per quel che riguarda Bernard. È una storia balzacchiana (i soldi!) ma molto più grigia di come l’avrebbe resa Honoré de Balzac: perché Simenon è ancora più duro, nella sua scarna prosa, e più attento a certi piccoli dettagli che spesso illuminano le bassezze della vita più dei fatti eclatanti.
“La morte di Auguste” pertanto porta in scena un condensato di stupidità umana e di sottile disperante condizione di vita, di quella vita moderna fatta di trucchi, imbrogli, bugie, mentre all’epoca di Auguste tutto era più semplice, più chiaro. È un motivo ricorrente in Simenon, questo della tacita denuncia della corruzione dei tempi nuovi, che spesso – un po’ anche in questo romanzo – è resa con la contrapposizione tra la vecchia cara campagna e la terribile Parigi imbrogliona e cinica. Dove la vita, al dunque, è un affare di soldi e non c’è spazio per l’umanità, nemmeno tra fratelli.
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