Il messaggio
I giudici tornano protagonisti, ma oggi la magistratura ha un altro ruolo. Colpa della politica
Il mugnaio Arnold lo diceva con soddisfazione e gratitudine: “Per fortuna c’è un giudice a Berlino”. Oggi potremmo dire che c’è un giudice per tutto: per derimere un dubbio sugli esami di maturità, per sciogliere il dilemma di un’Opa, per chiudere o tenere aperto un impianto siderurgico, per indagare politici e cortigiani su vere o presunte corruzioni. Intendiamoci, una parte dell’esuberanza della magistratura sta nel tasso di litigiosità della società e nella complessità del sistema di regole che ci siamo dati per la convivenza civile.
Il vuoto della politca
Non è solo una questione italiana. I giudici sono protagonisti, o lo diventano, negli Stati Uniti, così come a Bruxelles. Ma è pur vero che in Italia la magistratura ha assunto un ruolo di fatto assai diverso da quello che aveva di diritto. Colpa della politica? Probabilmente sì. I vuoti si riempiono sempre. E il vuoto della politica è stato (ed è) sotto gli occhi di tutti. Oggi che la politica – o almeno una parte di essa – progetta e prepara riforme sulla Giustizia possiamo dirci arrivati al dunque? Non credo. Sulla separazione delle carriere dei magistrati potremmo fare elenchi di buone ragioni e altrettanti di dubbi e incertezze. Ma mi sento di dire che non è questo il problema. Non sono contagiato dal “benaltrismo”, ma sono convinto che il problema della Giustizia avvertito dagli italiani non si risolve aspettando un referendum costituzionale che potrebbe essere imbandito fra un paio d’anni. Il problema della Giustizia in Italia è oggi; tutto il resto potrebbe essere visto come fumo negli occhi.
Un problema di efficienza della macchina della Giustizia
C’è un problema di efficienza della “macchina della Giustizia” e c’è un problema del suo ruolo. Che la macchina sia inefficiente lo vede chiunque abbia a che fare con la giustizia civile e i suoi tempi di attesa biblici. E sul fronte penale non va molto meglio. E potremmo dire che anche la “qualità” delle sentenze non è sempre alta, vista la loro frequente riformazione nel corso dei gradi di giudizio. Ma c’è il problema del “ruolo”: invece che amministrare Giustizia i magistrati sembrano sempre più spesso orientati a proporre moralità, sconfinando inevitabilmente in una attività politica. Che ci possa essere bisogno di moralizzazione, non da oggi, potremmo essere d’accordo, in molte parti della vita civile. Ma non pare che sia questo il compito cui è chiamato il potere giudiziario. Di certo non è una sua esclusiva.
Basta un’indagine per essere giudicati colpevoli
Il problema della Giustizia che si avverte oggi è che basta un’indagine per essere giudicati colpevoli. Il cortocircuito tra magistratura, media e politica non è solo affare della prima? Potremmo discuterne, visto che la fonte primaria (ed esclusiva) della gestione delle informazioni sulle indagini proviene dalle Procure. L’ex senatore del Pd, Stefano Esposito (uno dei tanti indagati italiani, poi prosciolti, dopo sette anni!) ha proposto un patto repubblicano: “Al di là di maggioranza e opposizione, di fronte a un’indagine la regola è che non ci si dimette”. O perlomeno la regola è che nessuno chiede le dimissioni. Anche perché, nella stragrande maggioranza delle volte, i processi si chiudono – parecchi anni dopo – con un’archiviazione o un’assoluzione o una condanna molto più lieve di quanto promettessero le indagini.
Due nuove proposte
Semplice. C’è chi ha già mostrato di apprezzare l’idea di Esposito. L’uovo di Colombo. Io proverei ad aggiungere due proposte. La prima: oltre alla mancata richiesta di dimissioni, potrebbe essere un segnale di civiltà non ostracizzare chi si trova indagato. Il ghetto degli italiani in attesa di giudizio è pieno di persone che vengono escluse preventivamente da ogni attività (esclusa forse solo la politica attiva) con danni enormi per loro, per le loro famiglie, per le persone e le imprese con cui collaborano. La seconda proposta, che in fondo comprende la prima: il suggerimento di Esposito potrebbe essere, ancora più semplicemente, un ritorno alla Costituzione. Alla sua piena vigenza. Nell’articolo 27 comma 2 della Costituzione della Repubblica italiana si legge che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Per questo motivo, la presunzione di innocenza viene anche chiamata “principio di non colpevolezza”. La strada di questo fondamentale diritto dell’uomo iniziò con Verri e Beccaria ed è giunta anche nella Convenzione dei Diritti dell’Uomo.
Basta un messaggio in Parlamento
Basterebbe applicare la Costituzione – senza se, senza ma – e la prima grande riforma della Giustizia in Italia sarebbe fatta. E magari, più che un “patto repubblicano”, basterebbe un messaggio al Parlamento (e all’Associazione nazionale magistrati) del Capo dello Stato, garante della Costituzione, presidente del Csm: la Costituzione parla chiaro. Tutte le discriminazioni cui sono sottoposti gli indagati a ogni titolo, sono incostituzionali.
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