Non aveva bisogno della cittadinanza onoraria che il Comune di Catanzaro ieri gli ha conferito. Cittadino di quello spicchio di Calabria, Massimo Palanca lo era da sempre. Dalla tripletta all’Olimpico che stese la Roma in una delle prime serie A di quella squadra che i catanzaresi ricordano a memoria come una preghiera. Laica certamente, ma quando si è in Meridione il sacro ed il meno sacro, perché definirlo profano sarebbe riduttivo, soprattutto quando si parla di calcio in alcune città, ha sempre un confine labile, sottile, come una linea di fondo campo.

Palanca non aveva tatuaggi, non credo proprio, ma ci potrei scommettere. Rispettava i contratti sulla parola e non chiedeva gli aumenti a gennaio per una doppietta fatta di mercoledì magari in Coppa Italia. Non faceva vacanze ad Ibiza, tutt’al più immagino sulla sua costa adriatica, qualche giorno di mondanità – se proprio doveva – al massimo in Versilia e quando voleva sentirsi Re a Tropea, Soverato, a Simeri mare dove aveva casa oppure a Copanello. Che in pochi conoscono ma chi è di Catanzaro sì. E lui di Catanzaro lo è sempre stato.

Una carriera che si riassume in un’unica città, perché a Napoli e a Como non fece bene. Ma non era o’rey sul lago e sul golfo. In Calabria invece sì, dette il meglio di sé perché a volte sono i luoghi a renderti unico e diverso. E come ha detto il giorno del conferimento della cittadinanza “Io sono la provincia, sono lontano mille chilometri dai grandi centri, io ho una moglie e un figlio che mi fanno sentire importante e la sera quando torno a casa Catanzaro mi sembra Parigi e New York”.

Che sembra troppo, oggettivamente, ma c’è un’Italia altra, fatta di bar sport sulle provinciali, di feste patronali, di Madonne in processione che non guarda alla City e al cibo molecolare ma si lega alla terra per il morzello nella pitta e per un amore vissuto quasi con gelosia.

Non era un campione, ma anche sulla definizione di campione bisognerebbe ragionarci un po’. Era un campione Ronaldo (quello vero, non l’influencer che ormai come un vecchio Toro seduto viene portato in giro per essere mostrato in qualche circo sempre meno importante)? Sì. Lo era Baggio? Figurarsi. Lo era Maradona? Forse il più grande di tutti. Ma si è campioni anche per qualche realtà e basta, perché magari si è lasciato un ricordo indelebile. Campione lo è stato Erasmo Iacovone a Taranto che regalò alla città salentina un sogno sfiorito in quel maledetto incidente. Come lo è stato Signorini al Genoa, Gigi Marulla per il Cosenza, Riganò negli anni bui della Fiorentina. E il padre lo racconta al figlio di quelle reti di Massimo Palanca da calcio d’angolo, che forse non ha nemmeno visto perché si parla di quarant’anni fa, ma che ha sentito raccontare come di qualcosa di epico dal padre che ha sognato un riscatto, fosse solo sportivo, quando sognare nella Calabria degli anni settanta era piuttosto difficile.

E si è campioni per Catanzaro ed i suoi tifosi che non riempiranno il “Santiago Bernabeu” ma che al “Nicola Ceravolo” stavano stipati per quei colori e per quella maglia. Di padre in figlio, di figlio in nipote. Per il numero 11 giallorosso che i bambini di oggi indossano sapendo che quella era la maglia di Palanca. Non di altri con i tatuaggi tribali in ogni dove e le vacanze al Pineta di Milano Marittima. I bambini a Catanzaro indossano ancora la maglia di Massimo Palanca da Loreto, che è terra di miracoli e lui di miracoli ne ha fatti tanti. Col piedino 37 partendo dalla linea laterale come gli attaccanti di una volta e facendo sognare una terra spesso senza più sogni. In terra di Calabria. Di padre in figlio.