La vicenda di O.J. Simpson è probabilmente il caso giudiziario più seguito di sempre dalla popolazione del villaggio globale. Tanto per capire, qualche centinaio di milioni di persone è rimasto incollato all’unisono davanti al video, in attesa che il giudice Ito consentisse la lettura del dispositivo: not guilty. Forse per questo essa è emblematica. Per questo e per l’altra non trascurabile circostanza che l’imputato, assolto nell’aula penale, veniva invece condannato in quella a fianco a pagare 67 milioni di risarcimento agli eredi di quelle che, sulla base del medesimo materiale probatorio, sono state qualificate come sue vittime.

La vicenda O.J. Simpson e i due metri di giudizio

Incrociare l’enorme bacino di percettori della notizia con la apparente singolarità della contraddizione dei due verdetti offre la misura di questa emblematicità. Sentirete dire – invero ve lo narriamo anche noi nella scheda del processo in Quarta Pagina – che ciò è stato possibile perché lo standard probatorio civile consente la condanna quando l’ipotesi che taluno sia autore di un fatto è più probabile dell’altra che egli non lo sia, mentre lo standard probatorio penale impone che la responsabilità sia accertata, appunto, oltre ogni ragionevole dubbio. Questo però racconta solo che i due sistemi processuali praticano un diverso metro di giudizio (cosa di cui invero ognuno s’avvede da sé), ma non spiega affatto perché le cose stiano proprio così. Non spiega cioè la ragione profonda di tale diversa scelta di metodo.

Certo, il linguaggio del diritto è ad alto tasso tecnico; quello del processo penale, se possibile, ancor di più. Ed è dunque naturale che si insedi tra quel mondo tecnico e il sentire collettivo un diaframma che non consente di spiegare tutto a tutti, se non sfumando qualcosa. Ma il diritto – e anche qui: ancor più il processo – è buon senso; cosicché se quel diaframma è così impermeabile da impedire fuori dall’aula ogni barlume di comprensione, allora chi col diritto ha dimestichezza una domanda deve porsela; e pure provare a dare una risposta.

Allora: com’è che Simpson, per la legge degli uomini, non ha commesso il duplice omicidio dell’ex moglie Nicole Brown e del cameriere Ronald Lyle Goldman, ma deve, al contempo, risarcirne gli eredi come se lo avesse fatto? Per penetrare un po’ meglio nella questione è certamente necessario cimentarsi con la difficile comprensione di cosa sia il ragionevole dubbio: in questo senso naviga la nostra barca questa settimana, provando a dare luce ai tanti profili dello strumento. Ma può tornare anche utile – e a ciò vorrei dedicare questa breve riflessione – guardare alla funzione dei due sistemi ai quali si è fatto riferimento per verificare se, per avventura, la diversità degli obiettivi, ma soprattutto dei rischi che essi naturalmente implicano, non abbiano avuto un ruolo nell’imporre questa diversità operativa. Ci si accorgerà allora, sotto questo profilo, che le cose stanno proprio così, perché, muovendo dal fatto che il processo penale può intaccare la libertà e la vita dell’individuo, mentre quello civile il suo patrimonio, si arriva agevolmente a riflettere sul fatto che i rischi interni a ciascuno dei due processi sono del tutto diversi qualitativamente.

I due possibili errori nel processo civile

Cosicché, nel processo civile esistono due possibili errori (dar ragione, sbagliando, all’attore o dar ragione, sbagliando, al convenuto) che sono tra loro del tutto equivalenti, nel senso che nessuno dei due implica una sofferenza ingiusta maggiore che l’altro. E diventa allora intuitivo che, a fronte della equivalenza degli errori possibili, la dose di cautela necessaria trovi adeguata soddisfazione in una regola che assegni la vittoria a chi disponga di prove che rendano soltanto più probabile che egli abbia ragione.

Il processo penale e l’ingiusta condanna

Nel processo penale, invece, i due possibili errori non sono equivalenti: assolvere un colpevole non implica nemmeno in lontananza l’immoralità obbiettiva di condannare un innocente. È per questo, d’altro canto, che l’unico vero errore giudiziario al quale il nostro sistema appronta rimedio è l’ingiusta condanna, non potendosi invece revisionare le assoluzioni. Ed è allora anche qui intuitivo, forse di più, che occorra fare tutto, ma proprio tutto, per scongiurare il rischio di quell’unico errore.

Ecco, il ragionevole dubbio come regola del giudizio serve a questo, a evitare che un innocente finisca in carcere anche a rischio che un colpevole, o dieci, o cento ne restino fuori. E se ci vien l’istinto di pensare il contrario, proviamo a vestire noi i panni di quell’innocente. Così è forse più chiaro perché il medesimo coerente sistema processuale abbia accettato il rischio di far pagare ingiustamente 67 milioni di dollari a un tizio per gli stessi fatti per i quali non ha accettato il rischio di mandarlo ingiustamente a morte.