Budget da 145 milioni di euro
Il film di Barbie, senza ruolo nella parabola del riscatto femminile, e Ken, il più vero fra i finti
Unico annuncio disponibile sul film più atteso dell’anno, e in uscita da oggi, era finora una sinossi stringata: “Dopo essere stata espulsa da Barbie Land perché non del tutto perfetta, Barbie, in compagnia del suo Ken, parte per il mondo reale alla ricerca della felicità”. Ossimoro interessante, dato il tempo inesauribile che ogni donna non più giovanissima, e perché no, anche molti uomini, hanno impiegato da piccoli a giocare con la bambola icona della Mattel, convinti semmai del contrario, e cioè di trovare la felicità in quel mondo di sogni scintillanti di rosa, spinti dalla tenera convinzione che fosse quello l’universo perfetto, e non certo ciò che si estendeva oltre il confine della propria stanza.
È vero anche che il mondo ideale poteva essere, all’occorrenza, vendicativo o spietato e che spesso ci si accaniva con piglio chirurgico, o addirittura omicida, sui corpicini di plastica delle povere malcapitate sventrando braccia e gambe, rasando le chiome fluenti di nylon, impasticciando le facce tutte occhioni e rossetto con la furia devastatrice di un pennarello. Fatto sta che da modello conservatore di donna bianca, etero, miliardaria, dotata di qualsiasi lusso o confort, e in qualsivoglia variante di rosa, Barbie viene costretta a trasformarsi dietro alle spinte del mondo reale e inizia a comparire in diverse etnie, con diversi fisici – scende in campo una Barbie sulla sedia a rotelle – venendo mossa dalla Mattel verso più alte aspirazioni – la mia preferita di sempre: Barbie scrittrice premio Nobel. Lo schema si arricchisce di complessità, non più soltanto spider confetto, camper e fuoristrada color glicine, piscine rosa con scivolo a chiocciola, ville e cottage ciclamino, ma bambole all’altezza delle prospettive che le donne del domani sono legittimate a perseguire.
Da nullafacente in una variante interminabile di ville di lusso con minuscole e bellissime tazze rosa per il caffè, a bionda elegante, certo, ma con un cervello. Non basta. Non a Greta Gerwig, alla sua quarta regia dopo i successi di Lady Bird Bird e di Piccole donne, che ha diretto il film scritto insieme a Noah Baumbach. Non basta se ci si ostina a inchiodare l’intera architettura sulla lotta fra uomini e donne, patriarcato contro matriarcato, accennando al cambiamento avvenuto, ma non riconoscendogli un ruolo nella parabola del riscatto femminile.
Ne viene fuori un racconto potenzialmente colmo di umorismo, ma incapace di credere fino in fondo a quello che, già di per sé, è un gioco intellettuale: l’ironia, la satira, la parodia, il sarcasmo. E così, in questo apparato visivo pieno di estro, eccezionale nelle scenografie e nei costumi, fra le tante trovate e la perfetta comicità di alcuni segmenti, eccoci precipitare davanti alla scure dell’insegnamento morale. Ci avete fatto credere che potevamo essere chiunque, anzi, peggio, che dovevamo essere qualcuno?
Avete confezionato per noi Barbie presidente, Barbie chirurgo, Barbie astronauta in un climax di ascesa caleidoscopica al potere e a nessuno è venuto in mente di dotarci di una Barbie ordinaria. Siamo al secondo equivoco: l’idea che l’ansia da performance, l’impressione d’essere inadeguati, tocchi solo alle donne e che solo a loro sia permesso di lagnarsi del potere che lo sguardo degli altri esercita, e i loro giudizi, e le loro sopraffazioni, e i nostri fallimenti: l’infinita gamma di pioli d’una scala, a volte in salita e a volte in discesa, che nella realtà fa parte dell’esistenza di ognuno, ma che nel film resta a beneficio delle bambine.
Non ci si fida dell’ironia. Non ci si fida della complessità. Non ci si fida dei sogni. Pensare in grande, nello spazio minuto di una cameretta, è un atto impositivo: trasformare piuttosto l’infanzia in un terreno di preparazione a una vita preconfezionata quanto i cliché di Mattel, ma nel rovescio della medaglia, là dove i futuri adulti saranno liberi dai desideri, scambiati per istigazione al merito, dalle fantasticherie o dalle iperboli. Almeno, però, al riparo dalle cadute. Se si evita di pretendere sogni meno convenzionali, e semmai più inclusivi e variegati, l’unica soluzione è quella di non sognare affatto, piombare dallo scintillio del rosa al grigiore dell’ordinario. Ed è un peccato. Perché a svestirlo di questo tocco demagogico e anacronistico, il film è un susseguirsi di piacevoli gag e stratagemmi, come la scena inziale che fa il verso a 2001: Odissea nello spazio e in cui una flotta di bambine vestite nei toni del fango giocano con le bambole, le coccolano come farebbe una mamma, le cullano e le baciano, fino all’arrivo del meteorite Barbie: splendida bionda in costume e occhiali da sole pressoché priva di responsabilità.
Evviva, la vita è una festa! No. Sarebbe un equivoco pericoloso. E di nuovo: che peccato. Un film con una regia hollywoodiana capace di spaziare dalla commedia al romance, dal drama al musical e all’action con grande agilità – il budget è di 145 milioni – un film graziato da interpreti strepitosi che finisce per essere qui e lì schiacciato dalla retorica. Nota a parte: Ken. Non si capisce se è intenzionale, ma a lui, un magistrale Ryan Gosling, vengono affidate le scene migliori: un uomo reduce dai ripetuti piccoli rifiuti a denti bianchi di Barbie, senza alcun talento né aspirazione, ora in cerca di autonomia, un uomo che non conosce la carezza del sentirsi abbastanza, ma che sogna un mondo capace di accorgersi perfino di lui, un uomo fra le donne, un debole fra i potenti. Struggente: il più vero fra i finti.
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