Ieri, in via Scarlatti, il gestore di un bar è stato multato per aver servito un caffè al banco. Ne ha dato notizia l’avvocato Angelo Pisani che ha anche annunciato ricorso a nome del suo assistito: il caffè sarebbe stato consumato all’esterno del locale e non al banco, così come previsto dalle norme. Questo accadeva in una città ancora scossa dal suicidio di Antonio Nogara, l’imprenditore sopraffatto dall’emergenza virus. A Milano, invece, i vigili sanzionavano i commercianti confluiti sotto l’Arco della Pace per manifestare – seppure a debita distanza l’uno dall’altro – contro il protrarsi del lockdown. È dunque chiaro cosa sta succedendo.

Ai danni fisici provocati dalla pandemia e alle angosce per l’incertezza sul futuro, si stanno aggiungendo gli effetti di un vero e proprio impazzimento normativo. Quasi una gara – tra premier, ministri, commissari straordinari, governatori e sindaci – non solo a chi la spara più grossa, ma anche a chi entra più nel dettaglio prescrittivo e sanzionatorio. “La migliore legislazione è quella che produce poche leggi ben chiare ai cittadini”, diceva Friederich von Hayek. È esattamente il contrario di ciò che sta succedendo dalle nostre parti. Sia chiaro: la qualità della legislazione in Italia, culla del diritto dell’Occidente, ha sempre avuto una pessima fama tra gli addetti ai lavori come tra la gente comune. E tutti sapevamo che le nostre leggi erano scritte con i piedi, incollando pezzi di varia provenienza, saltando da un rimando all’altro, in un crescendo di disprezzo verbale e logico per il cittadino.

Ma ora si sta superando ogni limite. E si vede. Come avrà fatto il vigile a misurare il punto esatto in cui è stato consumato il caffè – magari ristretto – servito al Vomero? Ed è sopportabile, oggi, che sia permesso passeggiare, fare jogging, portare il cane a spasso, ma non protestare contro un divieto ritenuto eccessivo? In un libro di qualche anno fa, Roger Abravanel e Luca D’Agnese scrivevano che l’Italia aveva due problemi: le regole sbagliate e i cittadini che non le rispettano. Era questa, spiegavano, la causa della immobilità economica e sociale del nostro Paese. Ora è però successo l’imprevedibile. Minacciati dal virus e spinti in uno stato di necessità, gli italiani, nella stragrande maggioranza, hanno cominciato a capire il valore delle regole e dell’autoregolamentazione.

Si è parlato – lo ha fatto anche il presidente della Repubblica – di un nuovo senso di responsabilità diffuso in uguale misura al Nord come al Sud. A fronte di questo cambiamento, che certo potrebbe non durare a lungo, la cosa peggiore da fare sarebbe non ricambiare la fiducia accordata. Nel vivo dell’emergenza, i cittadini hanno mostrato di credere nello Stato, perfino quando questo appariva diviso, confuso e in contraddizione. Ora è lo Stato che deve avere fiducia nei cittadini, cominciando col mostrarsi all’altezza del nuovo, implicito, “patto” civile dettato dall’emergenza. Ad esempio. Sempre a Napoli, una donna è stata aggredita da un immigrato mentre aspettava l’autobus in corso Lucci. Per quasi un’ora – la testimonianza è stata raccolta da Repubblica – la donna ha lottato e gridato, nella speranza di un aiuto. Ma nessuno è intervenuto.

Alla fine, è stata salvata per puro caso dal conducente di un autobus. Come è possibile che ciò sia accaduto in una città dronizzata, pattugliata, e intensamente cybersorvegliata? Tutti a caccia del virus, e va bene. Tutti a controllare se le mascherine fossero sul naso e il distanziamento fisico a norma. Ma tutto in una città in cui un caffè può portarti in tribunale e un violentatore poteva farla franca.