Da decenni il Ponte sullo Stretto appare e scompare nelle agende politiche come un miraggio. Doveva ridisegnare la geografia economica del Sud e l’immagine dell’Italia nel mondo, collegare mercati, attrarre investimenti, creare lavoro qualificato. Invece: promesse, studi, progetti accantonati. Altrove si costruisce, mentre qui si rinvia.

La retorica del “prima strade e ferrovie” e quella del “finirà alla mafia” sono state alibi perfetti per rimandare. Eppure, erano argomenti da ribaltare: il Ponte come motore per modernizzare trasporti e logistica; il Ponte come cantiere internazionale e trasparente, impermeabile alla criminalità grazie a controlli rigorosi. Si è scelto il contrario: niente Ponte. Le strade e le ferrovie del sud continentale sono persino peggiorate. Dunque, chi ha rifiutato il Ponte, quando ha governato, non ha realizzato neanche le opere che sosteneva fossero prioritarie in alternativa.

Nel frattempo, il Sud abbandonato ha perso industrie, occasioni e capitale umano. Laureati e non, su treni e aerei verso Nord, Europa, altri continenti. Un’emorragia silenziosa di competenze che svuota i territori e li condanna alla marginalità. Ogni partenza è una sconfitta collettiva: un investimento in istruzione che matura altrove. Il nodo vero non è solo il Ponte, ma un clima culturale che diffida di ogni grande opera: no a nuove vie di comunicazione, no a estrazioni di gas e petrolio, no a termovalorizzatori, no al nucleare. Un partito trasversale del “no” capace di bloccare ogni ambizione. Mentre qui si discuteva, altrove nascevano il tunnel sotto la Manica, il ponte tra Danimarca e Svezia, il ponte sospeso dei Dardanelli: infrastrutture che hanno ridisegnato territori e rilanciato economie.

In Italia, il Ponte di Messina è diventato un feticcio da respingere. Eppure dovrebbe essere il contrario: simbolo della rottura con un immobilismo che soffoca. È un’opera strategica per i collegamenti mediterranei e oltre, un nodo intermodale capace di dare centralità al Sud, attrarre investimenti esteri, potenziare il turismo, moltiplicare opportunità di lavoro e innovazione. Non è un capriccio ingegneristico, ma un test di maturità nazionale: scegliere di investire sul futuro invece di contemplare il passato; smettere di raccontare che “il Sud non è pronto” e cominciare a renderlo pronto. Ogni anno perso significa competitività in meno e un regalo a chi prospera grazie al ritardo, a chi vive di inerzia e rinvio. Qualcuno dovrà spiegare perché ci si definisce progressisti, ma si sposano puntualmente cause che si collocano all’opposto.

Gli altri Paesi non aspettano: hanno capito che le infrastrutture sono spine dorsali economiche e simboli di coesione. Il Ponte di Messina non unisce solo due sponde: unisce due idee di Paese. Quella che si accontenta di sopravvivere e quella che vuole crescere. La scelta è netta: rimandare e affondare, oppure costruire e vivere. Vincere la battaglia del Ponte significherebbe rompere un ciclo di auto-sabotaggio e restituire all’Italia la fiducia di poter realizzare ciò che decide.

Raffaele Bonanni

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