Il Sì&No del giorno
Il Tar promuove una ragazzina bocciata con sei insufficienze: “Sì, la scuola non deve lasciare indietro ma recuperare, rafforzare e riparare”
Nel Sì&No del giorno, spazio al dibattito sulla decisione del Tar di promuovere una ragazzina precedentemente bocciata con sei insufficienze. Abbiamo chiesto un parere a Marco Campione, giurista, che si dice contrario all’utilizzo esasperato della formula del ricorso al Tar, e al collega Andrea Vernata che, al contrario, si dice favorevole alla scelta operata dalla famiglia.
Qui di seguito, il parere di Andrea Vernata.
Tot capita tot sententiae. Ricordo ancora con piacere quando un caro amico correggeva la mia traduzione di questo antico brocardo in “tutto capita nelle sentenze”. Una frase su cui, in effetti, potrebbero costruirsi intere biblioteche, tanti sono gli aneddoti e le curiosità che possono raccogliersi in materia.
D’altronde si va davanti a un giudice proprio perché questo si pronunci con sentenza su un fatto o un diritto, sull’accertamento o la costituzione di qualcosa, quindi è quasi naturale che “tutto capiti nelle sentenze”. Si va davanti a un giudice anche quando si vuole essere certi che qualcosa che ci riguarda sia stato deciso correttamente. Che insomma il comportamento di qualcun altro, che incide in qualche modo su di noi, sia stato corretto o, meglio, “legittimo”, cioè rispettoso di quelle leggi e norme che ne regola(va)no in teoria presupposti e confini.
Ed è questo un accertamento tanto più opportuno quando quel comportamento lo pone in essere un soggetto pubblico che, in uno Stato di diritto in cui vige il principio di legalità (“ogni attività dei pubblici poteri trova fondamento in una legge”, quale atto dell’organo rappresentativo), non può certo esporsi a condotte arbitrarie e illegittime. Di più, quando detto soggetto pubblico assume le vesti di una “scuola” – e, cioè, di uno di quegli “organi centrali della democrazia” che viene chiamato a contribuire a salvaguardare la crescita personale, educativa e sociale dell’alunno, assicurando concretezza al diritto all’istruzione – tale accertamento si impone tanto più stringente, perché quella condotta si riflette subito su tutta la comunità, che vuole le potenzialità e le attitudini di quell’alunno pienamente sviluppate e salvaguardate.
Non mi pare costituisca lesa maestà, dunque, il fatto che un genitore (o chi ne fa le veci) chieda a un giudice di verificare le motivazioni che hanno portato la scuola a non ammettere uno studente o una studentessa all’anno successivo. È questa una verifica che non implica certo la sostituzione del giudice al collegio docenti, ma che invece si limita ad accertare che detto collegio abbia preso la decisione finale rispettando sia i criteri di ammissione che lui stesso ha deliberato, sia le circolari ministeriali adottate in materia e la normativa di riferimento. In sostanza viene controllata la motivazione della non ammissione e, se il giudice ritiene ci sia stata una illegittimità – vuoi per violazione di legge, vuoi per eccesso di potere – annulla tale decisione.
Escludere la possibilità di attivare un controllo simile mi sembra del tutto ingiustificato, tanto più in un ordinamento – qual è il nostro – dove vige l’obbligo di motivare il provvedimento amministrativo (di cui la cd. “bocciatura” è espressione). Quella motivazione rappresenta un presidio di libertà per chi entra in contatto con la dimensione autoritativa dello Stato, un presidio che consente a chiunque di difendere i propri diritti e interessi legittimi (art. 24 Cost.) dinanzi a un esercizio arbitrario o distorto del potere pubblico. Un potere pubblico che, si ripete, deve necessariamente muovere nel perimetro definito dalla legge e da quella ponderazione di interessi che essa fa propria, a monte, quale espressione della sovranità popolare e del pluralismo della nostra democrazia.
Ed è proprio guardando a quella ponderazione che mi sembra di poter affermare che il nostro sistema scolastico – almeno in teoria e al netto delle “storture” di fatto – non ammette alcuna deresponsabilizzazione da parte della scuola. Lo fa soprattutto quando contempla la non ammissione all’anno successivo come extrema ratio e, cioè, al fallimento delle “specifiche strategie” che la scuola è chiamata ad adottare per aiutare un alunno in difficoltà.
Non ammettere un ricorso in materia, in altre parole, significherebbe aprire a una “bocciatura” come mezzo per “liberare” la scuola da chi non si è stato in grado di istruire, facendo diventare la stessa uno strumento per “lasciare indietro”, anziché per recuperare, rafforzare e riparare. Un esito, quindi, del tutto incompatibile con i principi che uniformano il nostro sistema scolastico e con quelli che innervano il progetto di emancipazione e trasformazione sociale sancito in Costituzione, che riconosce nella scuola un fattore di mobilità sociale e di sviluppo, e non un (rinunciatario) fattore di selettività sociale.
© Riproduzione riservata




