Parla l'autrice di "Ragazze perbene"
Intervista a Olga Campofreda: “La libertà dal patriarcato con nel cuore Tondelli”
Alla fine degli anni Novanta, nel cortile della mia scuola elementare, una scuola privata gestita dalle suore a Napoli, me so’ mmiso o’ scuorno ‘nfacc. Letteralmente, ‘mi sono messo, ho indossato, la vergogna sul viso’. La vergogna pubblica – che in dialetto napoletano riflette la sua amara desolazione sul volto di chi la subisce – non è una sensazione passeggera, è una maschera che mortifica irreversibilmente i connotati fisiognomici dello scurnuso.
A Napoli, lo scurnuso è anche chi fa troppi convenevoli, i salamelecchi nei salotti più ciarlieri del rione, l’imbarazzato reticente per vero o piaggeria: tutte cose dalle quali bisognava che un maschio a quell’età stesse alla larga. Eppure, le mie guance continuavano ad arroventarsi senza sforzo, poiché non avendo alcuna abilità o grazia nel calcio preferivo starmene per conto mio durante la ricreazione, dopo la preghiera mariana, arrotolato sotto un fogliame di insulti. Probabilmente negli stessi anni e nel cortile di un’altra scuola di suore, di un’altra provincia campana, non molto distante da dove la mia faccia sembrava esibire un cartello calunnioso, una scurnosa stava già componendosi nella testa di Olga Campofreda, accumulandosi alle piccole violenze quotidiane che solo un’infanzia meridionale è in grado di sottoporti come selvaggio rito di iniziazione. Avrei conosciuto Olga anni dopo, quando la mia corteccia si era ormai irrobustita, ma non immaginavo che trascinasse dietro a sé anche Clara, la bambina irregolare col nome dalle “aspettative disattese e occasioni perse” che abita il suo romanzo, Ragazze perbene, uscito per NN Editore e presentato al Premio Strega da Gaia Manzini, per il suo essere l’affresco di una donna “spatriata, sradicata, balorda, sfocata, con le radici che puntano verso il cielo”.
Per gli inguaribili tondelliani, Olga Campofreda è l’autrice di Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli, saggio imprescindibile nella new wave non-censurata degli studi sull’autore correggese. E Tondelli è anche la stella polare di Ragazze perbene, coming of age ricchissimo di intertestualità esibita e sottesa. Clara comincia a comporre la propria grammatica sentimentale in una Caserta di plastica “che ricorda Miami”, simile a quella Rimini che, nel romanzo omonimo, sembrava Hollywood agli occhi di Tondelli. Campofreda costruisce il nostos di una expat attraverso le camere che ha abitato, descrizioni che rievocano la stanza di Annacarla piena di Oscar Mondadori in Altri libertini; e nella rifrazione dell’immagine di sé, scomposta nello specchio di un aereo che riporta Clara da Londra verso casa, rielabora la stessa scissione che Leo scorge volando sulle Alpi e che apre Camere separate.
Le ragazze come Clara sono cresciute all’ombra di un patriarcato senza scampo, assorellate da molestie silenziose e dall’omertà di madri e nonne che trovano conforto in uno strano connubio di riti esoterici e religione cattolica; sono state costrette ad appiattirsi nell’omologazione culturale dei jeans Richmond con la scritta “Rich” sul culo, negli smargiassi matrimoni a La Sonrisa col fidanzato storico di buona famiglia borghese. Eppure, sapranno sempre che, conformi o anomale, volevano tutto, e si sono sempre dovute accontentare di qualcosa.
Ragazze perbene mescola in un mash-up postmoderno un repertorio pop fatto di Spice Girls, James Dean e Beverly Hills, con citazioni indiscriminate da Roland Barthes a Goliarda Sapienza. Operazione stilistica che denota una straordinaria capacità di far convergere nella lingua letteraria – più che nei suoi temi – un’eterogeneità di miti e parlate contemporanei, compresa la sintassi di Tinder. Cosa rispondi a chi, fin dalla sua uscita, ha accostato al tuo romanzo l’etichetta – abbastanza antipatica – di “romanzo generazionale per Millennials”?
Non è mai stata mia intenzione restituire un romanzo generazionale, né credo che alla fine – nonostante tutti i riferimenti culturali – questa sia la definizione giusta per Ragazze perbene. La storia di Clara è posizionata in modo preciso nel tempo e nello spazio, nella cultura e nella classe a cui lei appartiene. Rappresenta certo una porzione di quelli che vengono definiti oggi i Millennials, ma in verità parla di tutti coloro che almeno una volta hanno provato insofferenza verso un destino che sembrava già scritto.
Oltre all’influenza di Tondelli, ho intercettato negli interstizi meno esibiti di Ragazze perbene altri riferimenti letterari contemporanei: lo sguardo sulla malcelata invidia nella socialità tra donne, aspetto peculiare della poetica di Teresa Ciabatti; la promiscuità dell’idea di appartenenza de La Straniera di Claudia Durastanti; lo spatriamento di Mario Desiati. Quale bibliografia reputi fondativa per la costruzione del tuo immaginario narrativo?
Adelmo torna da me e I giorni felici di Teresa Ciabatti disegnano squarci spietati sul mondo dell’infanzia e dell’adolescenza che mi hanno molto segnato come lettrice; con La Straniera e Spatriati poi il mio romanzo ha in comune l’idea del soggetto nomade che si costruisce e si conosce attraversando confini. Tondelli, c’è anche molto Tondelli in Ragazze perbene, soprattutto per la ricerca dell’universale nel generazionale. Infine, Simone De Beauvoir, Alba De Céspedes, Goliarda Sapienza per il modo in cui mi hanno insegnato a usare la prima persona femminile.
Bellezza, accoglienza ed eleganza sono il protocollo necessario per diventare donne perbene, ma già nella Caserta degli anni Novanta, complice la globalizzazione – o l’ “Internazionale Occidentale” (cfr. Dinner Party) – le ragazze si riconoscevano più negli occhi tristi di Britney Spears che in quelli delle loro madri o nonne. In che modo – e se sia ancora necessario – un libro come Ragazze perbene potrà contribuire a rifondare gli atti performativi più tradizionali della femminilità partenopea, del carattere di inadeguatezza che spinge le divergenze dalla provincia a emigrare o a rinunciare al desiderio?
Questo romanzo è un invito a interrogare la propria posizione nel mondo, e in particolare a isolare ciò che ci rende felici e più propriamente autentici, rispetto agli obblighi sociali imposti dalla nostra società di appartenenza. Clara è una ragazza che si allontana da casa per reazione, sa cosa non vuole essere, rifiuta un modello di femminilità costruita secondo schemi patriarcali. Il suo vero romanzo di formazione non comincia però a partire da questo rifiuto, quanto dalle domande che imparerà a rivolgere a sé stessa.
“La polvere delle cave che scende insieme alla notte, si poggia sulla testa dei passanti e pesa come piombo, gli inclina il capo dicendo loro di guardare sempre a terra e mai troppo lontano”. Con rassegnata tristezza, Ragazze per bene racchiude, in una riuscitissima metafora, quella predisposizione all’obbedienza e al riconoscimento dell’autorità da parte dei meridionali, nonché l’eccidio dell’ambizione imprenditoriale e dell’indolenza del “sogno partenopeo”. Quanto di questa mediocrità, anche di classe, ha contribuito all’instaurare maglie così strette per le donne del Sud?
Non credo si tratti di mediocrità quanto di rispetto per una tradizione sotto la quale spesso si resta schiacciati. Questo vale per le donne tanto quanto per gli uomini. Caserta è una provincia che nasce intorno a un progetto monarchico, una città fatta di sudditi. Mi sembrava una metafora forte da riprendere nel romanzo per indicare quanto questa sudditanza torni anche nel rispetto per i ruoli sociali che si tramandano di generazione in generazione e che ancora oggi con difficoltà vengono messi in discussione.
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