PQM - Il racconto
La denuncia di rivolta in carcere è inutile, la testimonianza: “Una pena lunga, fatta male, ti spegne e ti rende apatico”
Nel nuovo pacchetto sicurezza è previsto che, se tre persone detenute che condividono la stessa cella si rifiutano di obbedire all’ordine di un agente, con modalità nonviolente (gli strumenti per punire le modalità violente già ci sono), scatterà la denuncia per rivolta e si potrà arrivare a una condanna fino a 8 anni di carcere senza accesso ai benefici penitenziari. Introducendo il reato di “rivolta in istituto penitenziario”, invece di affrontare con strumenti efficaci la sofferenza, ma anche la rabbia che cresce nelle carceri, per condizioni detentive pesantemente illegali, si rischia di gettare benzina sul fuoco, e di togliere alle persone detenute anche quei margini di dignità e autonomia già oggi ridottissimi.
Noi volontari e operatori che frequentiamo le carceri ogni giorno, ne abbiamo incontrati, di ragazzi che hanno accumulato anni di galera per trasgressioni come l’essersi rifiutati di rientrare in cella per richiamare l’attenzione, perché un loro compagno stava male, e non arrivavano i medici. Sembra che si voglia tornare al carcere che forma detenuti obbedienti, ma non certo cittadini responsabili.
R. Detenuto a Frosinone:
Se cercassi di ripercorrere i miei anni di galera, partendo dall’arresto nel 2007, quando appena ventiduenne ho varcato la porta carraia della Casa Circondariale di Salerno, in piena notte con il trambusto di chiavi, volti giudicanti, incazzati già di loro, che mi aprivano cancelli e me ne chiudevano altri alle spalle, non potrei non pensare alla modalità costante del carcere, che ti fa sentire sempre e solo come un oggetto, un fascicolo vivente.
È così che è cominciato il mio tour di trasferimenti nelle 12 carceri in cui sono stato: da quello gestito in modo decente, al più violento, tra proteste e disordini che pago ancora oggi. Denunce, isolamenti, passando da regimi ordinari a disciplinari, fino alle camere psichiatriche che spesso ti inducevano proprio al suicidio.
Per affrontare il carcere ci si deve armare di coraggio e sopportazione, non tanto perché ti torturano fisicamente (ma può accadere), quanto perché sin da subito dovrai subire tante privazioni e ordini: mettiti qua, spostati di là, metti le mani dietro la schiena, cammina ai lati del corridoio, non fermarti a parlare con detenuti di altre sezioni. Quel tipo di carcere non solo ha contribuito a rafforzare la mia corazza, creata dal tipo di ambiente in cui sono cresciuto, ma a causa dei metodi poco rieducativi, ha finito per alimentare le mie parti difficili, spingendomi ad alzare l’asticella dello scontro in una guerra che negli anni mi ha annientato.
Molti direttori e comandanti conoscono poco la popolazione detenuta presente nel loro istituto, in particolare i detenuti più problematici, se non per decidere le sanzioni da infliggere loro: rapporti disciplinari, giorni di isolamento, denunce e poi magari togliersi il peso con un trasferimento, che sposta continuamente il problema da una parte all’altra del paese, a meno che qualche direttore più attento non abbia il tempo e la voglia di ascoltare in modo diverso questi detenuti per avviarli verso un serio percorso di responsabilizzazione.
Una pena lunga, fatta male, ti spegne e pian piano ti rende apatico, insofferente a tutto, non ti concede di proiettarti verso il futuro. Perché a te, amministrazione, che non sai cosa vuol dire stare da quest’altra parte e non vuoi neppure provare ad immaginarlo, ti è comodo battere la strada dell’indifferenza, della sfiducia verso di noi e dell’inflessibilità che mostri fieramente. Sarà proprio questo modello sbagliato che mi condizionerà e mi resterà incollato addosso, a meno che qualcuno non cominci a capire che trattandoci così non si fa il bene della società.
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