Da un lato creatività e gioco, dall'altro lamento
La letteratura del Sud Italia? Angioini contro aragonesi
Angioini contro aragonesi! Una chiave di lettura del tutto inedita, e spiazzante, per capire le rappresentazioni letterarie del nostro Sud negli ultimi due secoli. Ci viene proposta da Giuseppe Lupo, studioso lucano trapiantato nel Nord, in La Storia senza redenzione (Rubbettino). Questa chiave di lettura per funzionare ha bisogno di essere estremizzata, con tutte le semplificazioni e approssimazioni che può comportare, ma ha l’indubbio merito di innovare l’ermeneutica letteraria del meridione.
Angioini (con cui si schiera l’autore): immaginazione, gioco, epica, invenzione, apertura di nuovi orizzonti, riscrittura del mondo, dimensione corale, utopia, progettualità, fiducia in una redenzione storica, attenzione a mercanti, artigiani, borghesi, pensiero meridiano (i moduli arabo-napoletani imperniati sul fantastico, la Napoli boccaccesca e Basile). Aragonesi (i dominatori spagnoli): primato della denuncia e del lamento, immobilismo, rassegnazione, centralità di contadini e braccianti, conservatorismo, sfiducia nella Storia, fascinazione per la catastrofe, ebbrezza delle rovine (dietro il j’accuse c’è la “paesologia” di Arminio, benché mai nominato), pensiero apocalittico. Secondo Lupo la narrativa meridionale recente (in primis Saviano) subisce l’influenza del secondo paradigma, nel quale rientrano il capostipite Verga, De Roberto, Pirandello, Tomasi di Lampedusa – il cosiddetto antirisorgimento – Carlo Levi, Sciascia, etc., salvo qualche eccezione, come Montesano, Abate e Nigro. Mentre al primo paradigma si ascrivono Vittorini, Crovi, Sinisgalli, etc. Altri scrittori si collocano a metà del guado, e certo in tutti vi è una revisione polemica della epopea risorgimentale, percepita come annessione coloniale e conquista regia da parte di uno stato prevaricatore, con il brigantaggio visto come episodio di rivolta sociale da parte di chi non aveva altre possibilità di espressione (su questo si veda l’ultimo, notevole, romanzo di Catozzella). Lupo tende a privilegiare la «prospettiva dal basso», degli Jovine, Silone, Scotellaro, contro quella aristocratica e dall’alto, più siciliana. In ogni caso quando si tratta di vertici della letteratura, come Sciascia, entriamo e usciamo continuamente dall’uno e l’altro paradigma, e anzi saltano tutti gli schemi. Ora, proviamo a collaudare questa tesi.
Bisogna subito dire che il libro si presenta come un repertorio utilissimo, come una vero manuale sull’argomento (pur interessandomi al Sud ho letto la metà dei libri qui citati). Ed effettivamente può capitare al lettore di fare alcune scoperte, come ad esempio i romanzi di Carlo Alianello, un nome oggi quasi ignorato. Poi verso il finale ci imbattiamo in un persuasivo elogio degli antropologi, come Vito Teti, e ancora in una rilettura dell’emigrazione (anche riscatto individuale), e in una riflessione intorno al dorsale appenninico della nostra penisola (dove è nato l’autore), sullo spartiacque di molte geografie, lingue e storie, dove negli ultimi anni i borghi si sono spopolati, in posizione equidistante tra Nord e Sud, Oriente e Occidente. Ma spunti, rimandi, suggerimenti critici sono innumerevoli, ed è impossibile renderne conto. Al cuore del discorso la questione dell’urto del Sud con la modernità, e dunque la ricerca di una “terza via” tra rifiuto della modernità e omologazione ai modelli della modernità vincente (una ricerca che interessò il qui citato Franco Cassano). Ora, dopo aver riconosciuto che si tratta di una lettura nutriente e capace di orientarci come una bussola nella pletora di libri che riguardano il Mezzogiorno, provo a indicare un paio di punti di dissenso.
Anzitutto il giudizio severo sull’opera di Carlo Levi, qui appiattita su un estetismo dell’arcaico che condanna il Sud a una nobile arretratezza, o su una allegoria dell’inferno. Ora, proprio perché la modernità non ha un unico volto ma si risolve in una pluralità, in una varietà di voci, tentiamo di capire quale modernità inseguire. Per Levi il mondo contadino non deve essere “redento”. Anzi contiene una visione della vita e della morte da cui non possiamo prescindere del tutto. Può dare un contributo a una modernità auspicabile e polifonica. Levi, al contrario di Pavese (anche lui al confino) riuscì – intellettuale ebreo illuminista e progressista, militante antifascista – a farsi mettere in discussione da quel mondo. La civiltà contadina, con i suoi valori (il comune rurale autonomo, la tradizione mitico-simbolica, la visione magica e millenarista) esprime una critica, sia pure involontaria, a un laicismo positivista, a modelli e stili di vita dominanti. Come riprendere questa suggestione nel nostro presente? In un solo modo: assumendo la civiltà contadina, ormai estinta, come metafora di una critica radicale alle magnifiche sorti, alla illusione tecnologica del superamento di ogni limite, alla rimozione attuale della morte. Levi intende tenere insieme i monachicchi – folletti della campagna – e i diritti civili, il pianto rituale e la democrazia. Cristo si è fermato a Eboli va messo insieme a Tristi tropici di Levi-Strauss, “grande poeta della modernità”, e ai saggi più recenti di Latouche.
Poi mi piacerebbe discutere l’idea che Manzoni credesse in un riscatto degli umili dentro la Storia. In realtà i Promessi sposi si presentano al lettore come una storia segreta delle anime, dove qualsiasi “salvezza” va cercata non tanto nella Storia (che è da sempre lo scandalo del potere, come diceva Elsa Morante nel suo romanzo manzoniano La Storia), quanto in un gesto individuale di amore gratuito, in una improvvisa illuminazione del cuore, in una misteriosa apertura al bene. La provvidenza in Manzoni non rimette sempre a posto le cose (con la peste muore anche fra Cristoforo) e l’happy end è assai relativo. Piuttosto esprime la convinzione che il futuro non è nelle nostre mani, che non esiste alcuna dialettica virtuosa, che dobbiamo accettare la nostra impotenza sforzandoci di agire secondo coscienza e carità. Del resto nei versi finali di Adelchi Manzoni era stato esplicito: dentro il “mattatoio” (come lo definì Hegel) della Storia non si può che far torto o patirlo. Anzi solo una visione tragica della Storia potrebbe educarci a un maggiore sentimento laico, a non chiedere troppo alla politica, a non pretendere da essa una palingenesi dell’umano e il paradiso in terra (pretesa che ha fatto innumerevoli danni nel ‘900). In fondo Levi è un aragonese con la visionarietà di un angioino.
Certo dobbiamo raccontare non solo la Storia ma il sogno della Storia, come sottolinea Lupo. Però questo sogno si crea guardando più indietro che verso il sole dell’avvenire, attraverso il recupero di una nostalgia “attiva”(nostalgia di ciò che è accaduto e anche di ciò che poteva accadere, come sapeva Benjamin), attraverso la critica della politica come mero esercizio della forza e non dimensione comunitaria, di autogoverno e responsabilità (appunto Levi), attraverso la memoria degli sconfitti e delle vittime anonime, attraverso una idea di bellezza, di verità, di felicità che ci proviene dal passato, dall’esperienza concreta del passato – non dai sistemi utopici e dai modelli di società perfetta fin qui elaborati – , e da civiltà oggi sepolte, come quella contadina. Il futuro ha un cuore antico, ricordava Levi, e infatti quel sogno non è altro che il “sogno di una cosa” che l’umanità (angioina o aragonese, settentrionale o meridionale) tiene in serbo da sempre, e di cui, come sapeva Marx, deve solo prendere coscienza.
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