L’evento del giorno a Roma, a meno di una settimana dalla marcia destinata a cambiare la storia d’Italia, è la rappresentazione al Palatino della Fedra di Gabriele d’Annunzio, domenica 22 ottobre. È un evento non solo culturale e mondano ma anche politico. Il giorno prima l’Associazione mutilati di guerra ha ufficializzato la decisione di fare del 4 novembre, data della vittoria nella guerra, festa nazionale. Le celebrazioni, per la prima volta, si svolgeranno di fronte all’Altare della Patria. Ci saranno tutte le autorità, migliaia di bandiere, decine e forse centinaia di migliaia di persone. L’oratore designato è il Vate.

E’ l’occasione, inizialmente prevista per il 7 novembre, per disinnescare la mina Mussolini con un grande appello all’unità nazionale lanciato dal solo uomo ancora più popolare di Mussolini anche a destra. I manifesti già tappezzano la città. Manca solo la disponibilità del poeta. La rappresentazione del Palatino è l’occasione perfetta per blandirlo. L’esercito mette a disposizione 21 purosangue bianchi. Facta e Soleri sono presenti con una folla di autorità di ogni tipo. Quando entra l’autore il pubblico scatta in piedi per salutarlo con un tonante “Per d’Annunzio eja eja eja. Alalà”. Lui ricambia con un poco lusinghiero: “Di Roma non vedo che la cloaca” e Il Popolo d’Italia sceglie proprio questa giornata per annunciare l’accordo tra Mussolini e D’Annunzio sulla Federazione del Mare, in seguito al quale d’Annunzio ordina ai suoi legionari di smobilitare. Ma ancora non respinge l’invito per il 4 novembre e anzi quando parte, il 23 ottobre, saluta Facta con un “Ci rivedremo a Roma” che suona quasi come assenso.

Alla vigilia della grande adunata fascista di Napoli fissata per il 24 ottobre è a tutti chiaro che la crisi è arrivata al suo punto di svolta. Non potrà che risolversi, in un modo o nell’altro, nel giro di qualche giorno, una decina al massimo, ma i liberali ritengono di avere ancora la situazione abbastanza sotto controllo. Facta, dopo aver deciso di non vietare la manifestazione di Napoli, telegrafa al re, che si trova nella residenza di San Rossore, assicurando che “non avverrà nulla di importante riunione fascista Napoli salvo imprevedibili incidenti”. In ogni caso, puntualizza, “autorità militari danno ferma assicurazione che è impossibile penetrazione in Roma”. Ma nel complesso ritiene che la situazione politica si sia “rischiarata” e sia imminente una “pronta soluzione”.

Facta scrive anche a Giolitti, con toni ben più allarmati ma pur sempre ottimisti. Il suo governo è “ormai morto”, i fascisti “vedono arrivare la loro parte discendente e faranno qualunque pazzia ove non si trovi il modo di prenderli”, la situazione “è urgentissima”. Però “è impossibile che quando in Italia c’è un uomo come te non si trovi una via d’uscita”. L’allarme insomma serve soprattutto a incalzare Giolitti che a Cavour, in occasione del suo festeggiatissimo ottantesimo compleanno al quale un costernato Facta non può presenziare, riceve il ministro popolare delle Finanze Bertone, Camillo Corradini, il prefetto Lusignoli, il direttore del Sera di Milano e nazionalista Armando Zanetti.

L’anziano leader li informa di aver offerto a Mussolini 3 ministeri e il diritto di indicare un ministro degli Esteri non fascista ma gradito al fascismo. In cambio vuole però che Mussolini entri nel governo come ministro senza portafoglio. Di fronte alle tergiversazioni del duce, che evita di rispondere, Giolitti fa capire di essere quasi spazientito e di stare pensando a un governo senza i fascisti. Giolitti sbotta anche contro Facta:Faccia il suo dovere e si dimetta”. I fascisti antimarcia sono a loro volta attivissimi, brigano a Roma per un governo Salandra. Dino Grandi va a trovare il grande sociologo Vilfredo Pareto, a Losanna, sperando nel suo aiuto per fermare Mussolini. Pareto lo gela: “Mussolini è sulla via giusta. Fa bene a tirare diritto minacciando cose grosse. Ella è in errore. Vi è un tempo per essere legalitari e un tempo per essere rivoluzionari”. Poco dopo farà pervenire al duce un consiglio perentorio: “Dite a Mussolini: ora o mai più”.

Ormai la marcia è decisa, anche se la data non è ancora fissata: “Subito dopo il convegno di Napoli”, stabilisce Mussolini in un incontro a tre a Milano con Bianchi e Rossi nel quale si parla anche di come armarsi, individuando i depositi dell’esercito disarmando i piccoli distaccamenti lungo la strada, e di quale atteggiamento tenere nei confronti dell’esercito, massima simpatia e fare il possibile per evitare lo scontro ma senza ritirarsi perché su Roma bisogna marciare a ogni costo. Lui, il duce, però non marcerà. Resterà a Milano sia per continuare il gioco sui due tavoli, quello dell’insurrezione e quello della trattativa, sia per evitare di restare invischiato nelle trame che stanno tessendo nella Capitale i fascisti antimarcia: De Bono, De Vecchi, Grandi, Ciano. Sino all’ultimo però l’obiettivo della marcia resta imprecisato: Mussolini si lascia aperta ogni strada. la lista dei ministri è già pronta. E si fonda sulla idea di coalizione: dentro i popolari, i liberali e anche qualche socialdemocratico.

Il capo del fascismo tratta per ingannare e sviare i liberali ma anche per avere pronta una soluzione di mediazione. Così lancia all’improvviso una proposta studiata per confondere le acque: convocazione delle Camere senza aspettare il 7 novembre e nuove elezioni subito. Il senso della proposta lo illustra Balbo nel suo Diario: “Si gioca a rimpiattino. Con questa lusinga faremo di loro quel che vogliamo. Siamo nati ieri ma siamo più intelligenti di loro”. Mentre in vagone letto viaggia verso Napoli per la grande adunata, Mussolini fa sosta a Roma e incontra proprio Salandra. Un colloquio nel quale, almeno secondo l’unica ricostruzione disponibile, quella dello stesso Salandra, non si parla di chi dovrà presiedere il prossimo governo ma solo delle condizioni dei fascisti per farne parte: dimissioni immediate di Facta e cinque ministeri per il Pnf ma senza la partecipazione diretta di Mussolini all’esecutivo. Vuole le mani libere per gestire le squadre.

Il duce continua a ingannare tutti. Usa Salandra per ostacolare quello che considera il pericolo maggiore, Giolitti. Ma non ha alcuna intenzione di arrivare davvero a una soluzione pacifica rinunciando all’insurrezione. Risalito sul treno dopo il colloquio con Salandra e molto soddisfatto per l’esito dello stesso, si rivolge caustico a Cesare Rossi:Persistono a illudersi che la soluzione possa trovarsi a Roma e non vedono che è a Milano che bisogna cercarla. Chi ha provocato la crisi? Il fascismo. È al fascismo che spetta il governo”.

I ministri della marcia

Capo del governo: Benito Mussolini (PNF)
Esteri: Benito Mussolini (PNF)
Interni: Benito Mussolini (PNF)
Lavori pubblici: Gabriello Carnazza (Soacial Democratico)
Lavoro: Stefano Cavazzoni (Partito Popolare)
Tesoro: Vincenzo Tangorra (Partito Popolare)
Agricoltura: Giuseppe De Capitani (PLI)
Industria: Teofilo Rossi (PLI)
Giustizia: Alfredo Rocco (PNF)
Guerra: Armando Diaz (Vincitore prima guerra mondiale)
Marina: Paolo Thaon Di Revel (Ammiraglio)
Istruzione: Giovanni Gentile (Filosofo)
Colonie: Luigi Federzoni (ANI)
Finanze: Alberto De Stefani (PNF)
Poste: Giovanni Colonna (Social Democratico)
Economia Nazionale: Orso Maria CorBino (PLI)
Comunicazioni: Costanzo Ciano (PNF)