Come spesso accade, dietro il paravento del “rispetto della legalità”, si da corso alle peggiori violenze. Tale si può considerare l’irruzione che un gruppo di agenti di polizia ha fatto nei giorni scorsi nella Casa delle donne di Lucha y Siesta a Roma, identificando senza preavviso le donne ospiti e i loro figli.

«Che cosa si aspettavano di trovare? -si legge nel comunicato stampa – Le donne ospitate nella Casa, come noto, stanno vivendo percorsi di fuoriuscita dalla violenza, sono seguite dai servizi sociali, sono inviate da strutture che non hanno lo spazio per accoglierle, hanno fatto un percorso di ascolto, di screening sanitario regionale, sono in molti casi seguite in collaborazione con altre associazioni che si occupano di contrasto alla violenza di genere e che trovano in Lucha una risorsa preziosa. Le loro identità sono ben note; perché quindi identificarle e agire nei loro confronti l’ennesima violenza? Quale sarebbe il senso di una simile operazione?».

«Sconcertante, allucinante, incomprensibile» ha aggiunto la consigliera regionale Marta Bonafoni, tanto più se si tiene conto che la Regione Lazio «da più di un anno è impegnata in un percorso ufficiale e trasparente per salvare Lucha y Siesta», con l’intento, riconfermato da poche settimane, di acquistare l’immobile e restituirlo alla cittadinanza, a salvaguardia di una impresa preziosa e delle doti di competenza, professionalità, relazioni che la animano. Forse la doppia violenza subita dalle donne che hanno trovato in Lucha y Siesta non solo un rifugio, ma la possibilità di ricostruire serenamente la loro vita, è meno inspiegabile di quello che sembra.

Una società che ancora stenta a riconoscere il sessismo anche nelle sue forme più selvagge come un fenomeno strutturale, e a sostenere economicamente il faticoso impegno, in parte volontario e gratuito, dei centri che se ne fanno carico, non dovrebbe destare meraviglia se si permette di impedire a realtà nate dal basso, come Lucha y Siesta, di farlo ormai da anni con generosa dedizione in sua vece. Il pesante retaggio di secoli di dominio maschile, con le sue ricadute culturali, sociali, politiche, è arrivato da tempo alla coscienza storica, ma sono ancora esigue minoranze femministe e femminili, con le loro teorie e pratiche, a far in modo che non ritorni di nuovo in ombra.

Anche senza andare troppo lontano nel tempo, basta pensare al radicamento che hanno avuto nel nostro Paese le associazioni, i gruppi, le Case delle donne, i centri antiviolenza, gli archivi e i centri di documentazione, le librerie, le libere università, nati dal movimento delle donne degli anni ‘70. Si tratta di una enorme produzione di pensiero e di battaglie politiche che sono andate, sia pure lentamente, modificando modi di vivere, relazioni, pregiudizi, visione di sé e del mondo per entrambi i sessi, inscrivendo talvolta il cambiamento anche nelle leggi e nel linguaggio politico. Ciò nonostante, la cultura dominante non sembra esserne stata scossa più di tanto. Nel privato, come nel pubblico, continuano a passare violenze maschili di ogni sorta, manifeste e invisibili, materiali e psicologiche, tanto che non è raro per una donna che denuncia la violenza di un marito o padre, o fratello, trovarsi al medesimo tempo vittima di una giustizia che le ritorce contro ciò che ha subito.

Un atto aggressivo, come quello degli agenti di polizia del Commissariato Tusculano che, senza aspettare l’arrivo delle avvocate, identificano le ospiti già gravate da un difficile percorso di uscita dalla violenza, si pone al di fuori di ogni legittimazione e non può che essere interpretato come l’atto arrogante di un potere di alcuni uomini, sostenuto dal silenzio complice dei loro simili. Il contrasto alla violenza contro le donne manca ancora di quella indispensabile assunzione di responsabilità da parte del sesso che, su un dominio trasmesso di padre in figlio, ha costruito la sua visione del mondo, le sue istituzioni, i suoi saperi.

Se è vero che anche gli uomini, pur essendo dalla parte dei vincenti, hanno finito per assumere inconsapevolmente ruoli e identità considerati “naturali”, perché è così difficile per loro avviare un processo di “presa di coscienza” come quello che è venuto cambiando la vita di molte donne? A quale “legittimazione”, precedente ogni dispositivo di legge, fanno riferimento quando infliggono violenza a una donna, sia pure solo verbale? Dietro i comportamenti individuali c’è purtroppo ancora una cultura patriarcale che li alimenta e un apparato istituzionale, politico e amministrativo che li incoraggia.

L’attacco a Lucha y Siesta, come a tante altre iniziative che hanno fatto dei luoghi occupati una risorsa necessaria e preziosa contro le innumerevoli carenze di chi ci governa, non è la “difesa della legalità”, ma la risposta vendicativa e autoritaria volta a salvaguardare ingiustizie, privilegi e inefficienze rispetto a quello che dovrebbe essere salvaguardato come bene comune.