Terrificante è sempre stata l’amministrazione della giustizia, e dovunque. Specialmente quando fedi, credenze, superstizioni, ragion di Stato o ragion di fazione la dominano o vi si insinuano». Da questa breve citazione emerge il meccanismo che regola l’operazione di Sciascia, volta a oltrepassare il semplice richiamo alla memoria di un evento tanto violento e ingiusto. Lo scrittore siciliano infatti, riflettendo sull’esercizio del potere, procede continuamente in un confronto tra la vicenda di Caterina Medici e il mondo contemporaneo: talvolta questo paragone è apertamente dichiarato, altre volte solamente suggerito, ma l’analisi di Sciascia emerge continuamente attraverso questo sapiente intreccio tra passato e presente.

È difficile, se si ignora questo meccanismo, arrivare a comprendere fino in fondo la requisitoria che Sciascia costruisce contro il potere dei sistemi dominanti, nel caso specifico di questo libro, contro il controllo totale dell’aristocrazia milanese e le violenze della Chiesa cattolica. Parlando per esempio di come la Chiesa desiderasse annientare i pericoli a suo parere nascosti nella cultura popolare, una cultura che si trasforma in una religione del male, Sciascia scrive che questo dispositivo di controllo individua in quel tipo di cultura un pericolo «per l’ovvia ed eterna ragione che ogni tirannia ha bisogno di crearsene uno, di indicarlo, di accusarlo di tutti quegli effetti che invece essa stessa produce di ingiustizia, di miseria, di infelicità tra gli assoggettati». Il libro di Sciascia è prezioso perché è testimonianza di un compito altissimo della letteratura, quello di dare voce alla marginalità di chi si trova a subire le violenze della Storia: questo è il dovere della scrittura, innalzarsi a smascherare le forme distorte del potere e rimuovere i veli appannanti che coprono i volti turpi della giustizia nella Storia.