Le Ragioni di Israele
L’asse tra Israele, Grecia e Cipro è un faro di stabilità e sviluppo: un avvertimento non solo alla Turchia
Netanyahu: “Dimenticate di impiantare imperi e dominio sulle nostre terre”
L’altro giorno, durante la conferenza stampa tenuta a margine del decimo summit israelo-greco-cipriota a Gerusalemme, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato: “A quelli che vagheggiano di impiantare nuovamente i loro imperi e il loro dominio sulle nostre terre, io dico: dimenticatevelo”. Destinataria immediata di quella dichiarazione – rilasciata mentre i due a fianco, cioè il primo ministro greco e il presidente di Cipro annuivano – era evidentemente la Turchia, cioè il Paese il cui impero collassato si rigenera ormai da decenni nell’ambizione di un presidio post-coloniale che va ben oltre l’Oriente mediterraneo. Ma è evidente che quelle parole di Netanyahu – così come l’accordo cui facevano da sigillo dimostrativo – parlavano a un pubblico ben più vasto e avevano un significato ben ulteriore.
Il lavoro trilaterale con cui Grecia, Cipro e Israele rafforzano con progetti congiunti il proprio consorzio in materia di sicurezza, di difesa e di energia, definisce un argine economico-tecnologico e difensivo che non si limita a preservare le ragioni dei tre Paesi interessati, ma disegna un profilo alternativo di stabilità e sviluppo dell’area mediterranea.
Non è irrilevante il fatto che siano i vertici di tre democrazie ad annunciare la riaffermazione e il consolidamento dei propri rapporti di collaborazione quando – come recita la loro dichiarazione congiunta – “la regione si trova in un momento storico cruciale”; e non è senza significato che quelle piccole ma prominenti realtà democratiche rivendichino “un impegno che si estende dall’India attraverso il Medio Oriente e il Mediterraneo Orientale verso l’Europa”. È il segno – non puramente testimoniale ma fattivo – di un programma geopolitico che, dai cambiamenti mediorientali, vuole trarre occasione di progresso e sicurezza anziché pretesto di perpetuazione del disordine novecentesco appaltato agli eterni poteri autocratici aperti a ogni involuzione fondamentalista e chiusi a ogni rinnovamento.
Di estremo rilievo, ancora, è il fatto che il terzetto – come, colpevolmente, nessun altro gruppo plenipotenziario ha ritenuto di fare – abbia evocato il Piano di Pace per Gaza adottato con la risoluzione 2803 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, vale a dire il piano che riconosce l’ineluttabile esigenza di disarmo di Hamas e delle altre formazioni terroristiche palestinesi quale presupposto di qualsiasi credibile programma di ricostruzione di Gaza. La balbuzie della comunità internazionale in argomento non rischia soltanto di farsi ventriloquia delle pretese di riorganizzazione di Hamas; rischia anche – e ben più gravemente – di frustrare la svolta davvero epocale che si era registrata con quella risoluzione, un documento che per la prima volta individuava nella persistente radicalizzazione della Striscia un fattore di pericolo per gli Stati circostanti e per l’intera regione.
Quei tre Paesi affacciati sul Mediterraneo stanno spiegando a una comunità di potenze più numerose e influenti che non si interviene proficuamente per la pace, per la sicurezza e per il progresso organizzando boicottaggi e mettendo insieme colorate flottiglie molto gradite all’ufficio stampa di Hamas.
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