Interviste lobbiste
Laura Rovizzi oltre la ‘bolla’ e gli stereotipi sul lobbying: “E’ un coinvestimento tra pubblico e privato per lo sviluppo dell’intero sistema”
Economista, esperta di business development e regolamentazione, Laura Rovizzi ha lavorato diversi anni come ricercatore senior alla London Business School e alla Columbia University di New York. Insieme approfondiamo il tema del lobbying e della sua personale scommessa italiana.
Laura, CEO, manager e consulente. In più di 20 anni di esperienze hai attraversato diverse stagioni del lobbying in Italia. Qual è stato il momento in cui hai capito che questo mestiere sarebbe diventato la tua strada?
«Ho avuto certamente la fortuna di vivere fasi professionali e opportunità diverse, avendo buoni maestri e ottimi campi di prova. Quando ho scelto di diventare imprenditrice ho aumentato il rischio, ma in proporzione è cresciuta anche la soddisfazione. Ho fondato Open Gate Italia nel 2008, partivo dalla consapevolezza che ogni piano aziendale – soprattutto se orientato allo sviluppo e all’innovazione – richiede una solida gestione della leva normativa e regolatoria. È una condizione essenziale per il successo. Vedi, l’innovazione tecnologica e di processo, vanno di pari passo con quella delle regole. In quel momento esisteva un vuoto di mercato nella consulenza, e io ho provato a colmarlo. Ho di fatto “esportato” in un modello consulenziale il mio lavoro in azienda: analisi di mercato, tecnologica, leva normativa e regolatoria, poi comunicazione e relazione con gli stakeholder».
Agli esordi sei stata per vari anni ricercatrice senior alla London Business School e alla Columbia University di New York. Cosa ti ha lasciato quell’impostazione accademica internazionale?
«Ah beh il metodo e la consapevolezza che, pur essendo una ragazza della periferia difficile di Milano, potevo giocare la mia partita globale. Ma soprattutto ritorno sul metodo: è essenziale imparare dalle esperienze e dalle competenze di chi ha realizzato prima di noi – io lavoravo sulle information superhighways di Al Gore – studiando strade per incentivare la presenza del privato nei settori pubblici. Da lì ho imparato che la regolazione non è burocrazia, ma uno strumento utile per cambiare le cose. Senza ideologie. E soprattutto senza paure».
Perché poi hai deciso di scommettere sull’Italia?
«In realtà poi è stata l’Italia a scommettere su di me, o meglio, i manager di un’azienda – la Olivetti – che nel ‘94 era un grande motore di innovazione. Era proprio il momento di grande aspettativa e crescita della telefonia mobile in Italia. In quegli anni, con quel gruppo di persone, letteralmente inventammo il sistema regolatorio che ha permesso lo sviluppo della telefonia mobile nel nostro Paese. È stato un onore essere una giovane professionista – convinta a rientrare da New York a Ivrea – in quel contesto di sviluppo industriale. Un destino che auguro a molti dei nostri giovani che oggi vivono all’estero».
Quanto conta la tua esperienza come economista e business developer per comprendere le esigenze di un mondo industriale che ha bisogno di relazioni istituzionali?
«Ah moltissimo. Ogni azienda dovrebbe avere quello che io chiamo un business plan regolatorio, che mappi ogni impatto normativo sul proprio business. Ma non basta conoscere i dossier: bisogna saperli tradurre in valore per gli stakeholder istituzionali. Credo che la nostra professione non consista nel “tirare giacche”, ma nel fornire elementi per un’analisi costi-benefici che il sistema istituzionale può fare propri in un’azione di sintesi alta e, sì, Politica. Un sistema economico che cresce e innova beneficia sicuramente di relazioni che portano contenuti e visione, costruite con rigore e velocità. Le istituzioni, dal canto loro, hanno un bisogno estremo di questo rapporto con la realtà delle imprese, con la loro pragmaticità e le loro direzioni. Senza un contatto costante con gli stakeholder, il sistema fallisce. Il lobbying – in ultima analisi – non è un lusso di cui possiamo fare a meno: è un coinvestimento, tra pubblico e privato, per lo sviluppo dell’intero sistema».
Parli spesso di una complessità che richiede visione come ingrediente fondamentale. Sei esperta in settori ad alta regolamentazione. Come si costruisce una strategia efficace in un contesto normativo e sociale frammentato come quello italiano?
«Vedi la complessità non è il problema. Il vero limite è la mancanza di scala e di visione. Siamo piccoli, e in settori regolati — come l’energia, il digitale e le infrastrutture — questo significa essere marginali. Senza infatti una regia che promuova la concorrenza e operi a livello europeo, ogni norma rischia di diventare un ostacolo sterile. Anche il frequente paragone tra Europa e Stati Uniti, su chi regola di più, è poco più di una battuta da convegno: gli USA hanno sempre usato la regolazione per creare nuovi mercati, ma hanno anche usato il pugno di ferro sui monopoli. La differenza è che l’hanno fatto bene, con una chiara visione industriale».
Il tuo salotto si apre periodicamente ad ospitare discussioni su libri, politica e scenari. Come sono nati questi appuntamenti e quali ti hanno cambiato il modo di vedere le cose?
«Più che altro offro un posto in piedi e una pizzetta in soggiorno, a un gruppo di amici di estrazione professionale diversa, che si interroga e riflette su come incidere — anche attraverso i sistemi regolatori — sulla politica industriale: dall’energia, al digitale, passando per i servizi pubblici. Con leve, strumenti e visioni. Sai, molti di noi sono ragazzi che hanno studiato in Europa, con il sogno che il mercato unico ci desse quella dimensione, quella forza, quello spirito d’innovazione utile anche alla crescita delle nostre aziende nazionali. Quel sogno l’abbiamo visto realizzarsi in parte — dalla telefonia mobile al sistema elettrico — e oggi crediamo che debba essere recuperato con più convinzione».
Hai definito il lobbying come “marketing delle idee”. Da dove prendi spunto per coltivare la tua creatività?
«Sì, io penso all’attività di lobbying come al marketing di un’idea, ma in un mercato speciale: quello del consenso. Ho fatto anche il direttore commerciale in passato, e posso assicurare che gli strumenti operativi per promuovere un prodotto sono gli stessi che servono per promuovere un’idea nel mercato del consenso. Gianfranco Miglio, il mio professore di Scienza della Politica, ci insegnava minuziosamente gli strumenti per la gestione del consenso. Io parto ancora da lì, perché qualsiasi progetto di lobbying è, in essenza, un piano operativo di marketing. A volte ci raccontiamo male, a volte ci chiudiamo in una “bolla”, e spesso subiamo stereotipi legati a un pregiudizio più grande: che creare valore per le aziende sia in contraddizione con l’interesse pubblico. Io su questo non sono d’accordo. Non diventeremo più efficaci — né più accettati — solo perché esisterà una legge che ci riconosce uno status. Lo diventeremo solo quando supereremo il bias dicotomico per il quale pubblico è = altruismo, legalità, giustizia; mentre privato = egoismo, corruzione e sfruttamento. Non è, naturalmente, così».
Fuori dal lavoro, chi è Laura Rovizzi? C’è un’abitudine, un rituale o una passione che ti aiuta a riequilibrarti nelle giornate più complesse?
«Mi chiedevi prima da dove trovo l’energia e la creatività. Beh ho la caratteristica, che a volte è un limite, di pensare sempre “diverso”.
Amo gli spunti creativi. Ma è nello sport, e soprattutto in quelli di fatica, anche un po’ di rischio, che trovo l’energia: faccio bicicletta, sci alpinismo… Lo so, sono un po’ incosciente, ma sempre in sicurezza. Sai, scendere da una traccia, o salire verso un ghiacciaio – con quel panorama, quel rumore di silenzio, quell’atmosfera – mi sfida e mi ricarica, come nulla al mondo».
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