Competitività
Confindustria pressa il governo. La prossima Legge di Bilancio riesuma Transizione 4.0
L’idea migliore, per le imprese, sembra il ritorno al passato. La prossima Legge di Bilancio dovrebbe riesumare le norme della Transizione 4.0, dopo il fallimento conclamato della successiva Transizione 5.0, che il governo Meloni si intestò al suo insediamento. Anche il Mimit di Adolfo Urso sembra arrendersi.
Nel testo di accompagnamento al Def (Documento di Economia e Finanza) per Bruxelles si legge: “Nell’ambito degli interventi finalizzati al sostegno delle imprese e, più in generale, dell’innovazione si favoriranno gli investimenti in beni materiali attraverso la maggiorazione del costo di acquisizione valido ai fini del loro ammortamento, per un valore complessivo di 4 miliardi di euro”. Il governo si sta orientando sul ritorno del superammortamento, cioè la possibilità di maggiorare, ai fini delle imposte sui redditi, il costo di acquisizione dei beni materiali strumentali nuovi.
È l’unico apprezzamento fin qui riconosciuto da Confindustria alla manovra 2026. Il presidente Orsini lamenta l’assenza della parola “crescita”. Aggiunge per chiarire: “C’è apprezzamento per la tenuta del debito che darà vantaggio al nostro Paese, ma serve anche la crescita”. Che non si fa limando l’Irpef o intervenendo sulle pensioni. E chiarisce: “Apprezzo il lavoro fatto dal ministro Giorgetti sul contenimento dei conti pubblici. Ma la crescita si fa con investimenti. Investimenti che ci servono per essere competitivi. Noi abbiamo l’obbligo di essere più competitivi”. Per poi inanellare i grani di un rosario sempre simile a sé stesso: dal tema dell’energia, secondo Confindustria trascurato dal piano del governo, alla mancanza “di misure forti a sostegno” di un vero piano industriale per il Paese, in uno scenario dominato da incertezza, dazi e rischio delocalizzazione.
C’è chi fa una cifra: secondo Confindustria, ci vogliono almeno 8 miliardi per le imprese. Ma sarebbe marginale fermarsi ai numeri, anche se i soldi contano. È certo che le risorse finanziarie pubbliche non consentono grandi sforzi. Il buon padre di famiglia, in questi casi, deve fare scelte oculate e indicare linee di intervento prioritarie. La sensazione è che si stia preferendo una spruzzatina di interventi, qui e là, per evitare troppe contestazioni, piuttosto che favorire una strategia di sviluppo industriale del Paese.
Ecco, di sicuro non si vede una strategia, e su questo è difficile dare torto alle perplessità degli industriali italiani. Ma c’è da dire che, se il governo viene accusato di incertezza e di provvedimenti random, anche Confindustria non sembra sempre brillare per propositività. La Confindustria di oggi è certamente meno rappresentativa di quella di venti anni fa, ha perso molti pezzi tra i suoi associati e le imprese statali, o comunque pubbliche, sono diventate una parte preponderante, e non sempre adeguatamente propulsiva. Oltre all’assenza della parola crescita, manca anche la parola produttività, e questa ha bisogno di relazioni industriali forti, per fare contrattazione forte: produttività fa bene alle imprese, ma farebbe bene anche ai lavoratori e ai loro salari. E qui il governo c’entra meno.
Governo e Confindustria: due debolezze non fanno una forza. Se poi aggiungiamo che le relazioni industriali sono svolte con organizzazioni sindacali che in questo frangente sembrano più rivolte ai problemi di politica internazionale che non alla soluzione dei problemi economici di casa nostra, ogni capacità di “visione” sfuma e si torna a vivere alla giornata.
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