Siamo di fronte a un piccolo grande evento editoriale: l’epistolario completo di Italo Svevo, Lettere, a cura di Simone Ticciati e con un saggio introduttivo di Federico Bertoni (Il Saggiatore). Un documento indispensabile per capirne tic, moventi e ossessioni, e soprattutto per illuminare la sua doppia identità di scrittore e impiegato, di artista e padre di famiglia, di letterato e uomo d’affari, di genio e borghese (un io di superficie e un io profondo: ma qual è quello “profondo”?).

Per capire l’intero epistolario è fondamentale una favola che racconta alla figlia Letizia, di 10 anni, in una lettera del 1908. Svevo le dice di aver incontrato due falegnami, il primo lavora coscienziosamente e fabbrica armadi, l’altro inventa un nuovo mestiere e invece di fare armadi li descrive. Col tempo questo secondo falegname descrive in modo sempre più colorito e fantasioso, e anzi si mette a raccontare fandonie (ad esempio dice di conoscere “armadi vivi”, etc.). Apparentemente Svevo si schiera tutto con il vero falegname, mentre il falegname buffone lo presenta come un parassita e uno “stupido”. E conclude invitando la figlia non solo a leggere ma “a fare”, e in particolare a farsi da sé i vestiti delle bambole. Ma la questione è più complessa: in realtà lui ha sempre vissuto in quell’ambiguo sdoppiamento, anche quando pretese, nel 1902, di chiudere con «quella cosa ridicola e dannosa che si chiama letteratura». Leggiamo qui un giudizio tagliente di Bobi Bazlen su Svevo, in una lettera a Montale del 1928, in cui intende sfatare la leggenda «d’uno Svevo borghese intelligente, colto, comprensivo, buon critico…»: «non aveva che genio: nient’altro. Del resto era stupido, egoista, opportunista…».

In un epistolario che si estende per 44 anni (dal 1885), lungo ben 1200 pagine, non si parla quasi mai di letteratura, fino al 1925, dunque circa a pagina 1000, poiché nel 1923 era uscito a suo spese La coscienza di Zeno, ma poi nel 1925 Montale ne scrisse un elogio che darà allo scrittore una certa fama, dopo i due precedenti romanzi falliti e incompresi (oltre all’interessamento di Joyce, che lo fece conoscere in Inghilterra e in Francia). Da quel momento Svevo, «infantilmente avido di sempre nuove lodi e onori» (Debenedetti) scrive a scrittori, letterati, critici, etc. (da Prezzolini a Montale, inoltre ci sono 4 lettere, finora inedite, a Joyce). Fino al 1925 invece si tratta di lettere scritte perlopiù alla “amata mogliettina” (dall’Inghilterra o da Murano, dove lavorava), e solo qualcuna alla figlia, scritti eterogenei per estensione e contenuto, in cui si registrano aneddoti, episodi del quotidiano, scambi di battute (in dialetto), propositi di smettere con il fumo (il “centenario” sono 100 ore di astensione!) piccole disavventure di viaggio, curiosità: «Faccio una tale vita che m’è persino difficile di scriverti! Se fossi al polo nord ci sarebbero almeno gli orsi che mi minaccerebbero. Qui non mi minaccia altro che un inebetimento lento ma sicuro» (1901, da Murano).

La letteratura è pressoché assente, salvo poche eccezioni: in un caso dirà che il Fuoco di D’annunzio lo interessa ma non gli piace. Non è un “epistolario da scrittore”, ci avverte l’introduzione: con la moglie non ha un vero dialogo culturale, solo qui e là pochi giudizi su altri scrittori o magari le impressioni di una sera a teatro. Per il resto si limita a raccontarle stati d’animo (altalenanti), momenti di autoriflessione, idiosincrasie passeggere o appunto la cronaca di un quotidiano piuttosto incolore (tra lavoro e viaggi). Ciò ispira simpatia: la cultura dovrebbe illuminare l’esistenza ma non costituirne un tema costante di conversazione, trasformando l’esistenza stessa in un convegno permanente, in una citazione continua. Ma qui arriviamo al nodo di fondo vita-opera.

Da una parte, abbiamo visto, Svevo nel 1902 ha eliminato dalla propria vita la letteratura (almeno intesa come scena pubblica), dall’altro però continua a scrivere (lettere, diario) perché solo così riesce a pensare, e anzi a capire se stesso, «ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere» (come dirà nel diario). Alla scrittura non si può rinunciare, anche se «pubblicare non occorre» (una verità da fare sapere all’esercito minaccioso degli aspiranti romanzieri nel nostro paese!). Bertoni, nella introduzione (“Letteratura contro letteratura”), si impegna a sviscerare con acume quel dualismo cui prima si accennava, e nota tra l’altro che quando Svevo sembra svalutare la letteratura – la stupenda favola dei due falegnami – lo fa attraverso la letteratura stessa, e con una conclusione volutamente ambigua: chi è davvero lo “stupido” tra i due? Appare evidente che Svevo nella lettera alla figlia pur condannando, moralisticamente, il falegname bugiardo e sognatore (appunto lo scrittore), è consapevole che anche questi “fa” le cose. La letteratura è quella “bugia” che pretende di dire la verità, la quale altrimenti non si potrebbe enunciare: «inventare è una creazione, non una menzogna» (La coscienza di Zeno). Il dualismo tra il romanziere e il commerciante triestino resta intatto, con qualche risonanza perfino teatrale, e forse Italo Svevo, appartandosi provvisoriamente nell’ombra, ha vissuto la vita di Ettore Schmitz come una sua possibile autobiografia, ha delegato la vita al suo stesso doppio (tanto che non sappiamo più chi simula chi).

Qui vorrei aggiungere una considerazione alle conclusioni di Bertoni, per il quale fuori della scrittura non ci sarebbe niente – solo frammenti dell’essere andati a male, rovine, scorie, e insomma la “vita orrida vera” – e invece solo il racconto dà alla vita significato. Contrappone cioè – svevianamente – al caos della Storia una qualche forma, benché precaria. Come scrive lapidariamente Svevo «fuori della penna non c’è salvezza». Ne siamo davvero sicuri? In questo modo si condannerebbe alla insignificanza e alla non-vita la maggior parte dell’umanità (che, verosimilmente, non scrive!). Bisogna intendersi su cosa significhi “racconto” e “scrittura”. Credo che la “scrittura” qui evocata sia figura del raccoglimento, dell’autocoscienza, e il “racconto” semplicemente metafora della capacità di inserire la dispersione centrifuga dell’esistenza entro una narrazione unitaria. Il che non implica la necessità di avere un diario (di “scribacchiare giornalmente”), di scrivere romanzi e di tenere ogni giorno una penna in mano (anzi Kafka sapeva che la sua coazione a scrivere era una condanna, un vano risarcimento della incapacità di vivere). Può anche trattarsi di un diario semplicemente mentale (per calarsi «nell’imo del proprio essere»), di un esercizio o sforzo che ognuno fa nell’interiorità, per dare appunto un ordine, un senso possibile all’esperienza, in sé frammentaria e opaca. La scrittura è solo una delle tante “tecniche” del raccoglimento.

Franco Fortini osservò una volta che l’uso letterario della lingua è omologo «all’uso formale della vita» che è il fine del comunismo. Lo anticipa ma resta appunto soltanto una figura di quello. Ciò che conta, alla fine, non è dunque la letteratura, e neanche la scrittura, ma «l’utopia di un’uso formale della vita» (qui la questione diventa squisitamente “politica”, legata anche alla giustizia sociale), e cioè la possibilità individuale di dare una forma – più o meno coesa ma significativa – al pulviscolo caotico degli eventi che viviamo.