Presidente del Movimento Europeo dal 2010, erede del Movimento Federalista Europeo fondato nel 1948, Pier Virgilio Dastoli continua a credere in una Europa unita, forte. Quella che manca.

Sul fronte della difesa, qual è la scelta che l’Europa deve compiere? Più spesa nazionale o una vera difesa europea?
«Aumentare le spese nazionali significa non fare una difesa europea. Su questo, per ora, non è stato fatto nulla di serio. Conteggiare le pensioni dei militari, fare il ponte sullo Stretto e finanziare le industrie nazionali non basta a dire di aver investito sulla difesa. Noi abbiamo bisogno di altro: rendere interoperative le nostre forze armate, creare sistemi di difesa europei invece di comprare dagli americani, integrare i sistemi d’arma, mettere insieme le industrie europee. Oggi non avviene. E in alcuni casi si fanno scelte in direzione opposta: l’Italia che fa accordi con Regno Unito e Giappone, i francesi che rafforzano la loro solidarietà nazionale, i tedeschi che pensano a un esercito tedesco. Sono scelte che non aiutano una difesa europea».

Cosa servirebbe, concretamente, per costruire una difesa comune capace di aiutare l’Ucraina?
«Siccome non è immaginabile fare una difesa europea a 27, bisogna scegliere una strada tra quelli che ci stanno. Perché non immaginare una sorta di Schengen della difesa, come ha chiesto recentemente il Parlamento europeo? Così come nell’85 fu fatta Schengen per la libera circolazione delle persone, si potrebbe immaginare una Schengen della difesa che mette insieme risorse per investimenti europei, non nazionali. Abbiamo 27 eserciti di terra, 26 aeronautiche, 23 forze navali: ognuno va per conto suo. Per aiutare l’Ucraina dobbiamo integrare queste forze, avere un’unica intelligence europea invece di dipendere da quella americana, creare un’accademia militare europea, un comando strategico europeo che non dipenda dal comandante in capo americano. C’è una serie di cose che devono essere fatte».

L’ammiraglio Cavo Dragone ha detto che sulla guerra ibrida serve agire preventivamente. Ha ragione?
«Ha ragione, sulla guerra ibrida. Per quanto riguarda la cybersicurezza e le ingerenze, non si tratta di attaccare la Russia ma di creare un sistema che prevenga le ingerenze esterne. Investire insieme. E poi dobbiamo creare un sistema di controllo europeo della vendita delle armi ai paesi terzi: oggi ognuno vende come vuole. La difesa è uno degli strumenti della politica estera, e anche la vendita delle armi lo è. Dobbiamo prima metterci d’accordo sui nostri interessi strategici: questa è la debolezza dell’Europa».

Veniamo alla vicenda della Procura belga e di Federica Mogherini. Come la interpreta?
«Quello che si legge sui giornali è confuso: si parla di concorsi in cui alcuni candidati sarebbero stati informati, e di un progetto – che esiste da anni – per fare un’accademia europea dei diplomatici. Il Collegio d’Europa è un centro di eccellenza: non sarebbe stata una scelta sbagliata. È anche possibile che, andando avanti, emergano altri elementi, ma questo lo accerterà la magistratura. Per ora, si tratta di innocenti in attesa di giudizio, dobbiamo essere garantisti».

Non le sembra curioso questo tempismo, con l’inchiesta sulla corruzione intorno a Zelensky e subito dopo il fermo di Mogherini, ex Lady Pesc, amplificato da Mosca?
«A pensare male, diceva Andreotti, sa fa peccato ma spesso si indovina. Peraltro, si tratta di un caso che riguarda tre persone e vicende risalenti ad alcuni anni fa. E c’è stata anche un’altra coincidenza: ieri Parlamento e Consiglio hanno adottato una norma anticorruzione contestata da Orbán, frutto di mesi di negoziato. Coincidenze casuali. Diciamo».

Alla luce di tutto questo: va ritrovato l’orgoglio europeo?
«Il Trattato di Lisbona prevede che il Consiglio europeo debba adottare linee fondamentali dei suoi interessi strategici. Serve leadership: in Europa ce ne sono poche. E il Parlamento europeo non si è mosso con determinazione. I gruppi sono divisi nella politica dei due forni di Weber che fa accordi con l’estrema destra o col centro-sinistra. Finché è così, difficile avere una posizione forte. Noi abbiamo lanciato un messaggio: mancano 40 mesi alle elezioni del 2029. I partiti devono svegliarsi ora, non tre mesi prima, per preparare una maggioranza federalista. Gli Stati Uniti d’Europa non possono più aspettare».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.