Una storia brillante ma...
“L’ipocrita”, un pessimo padre vede in scena i suoi misfatti: il romanzo di Jo Hamya manca un po’ di sostanza
La chiave di questo romanzo di Jo Hamya, giovanissima scrittrice londinese, “L’ipocrita” (Gramma Feltrinelli, traduzione di Ada Arduini) è brillante. Però una chiave non basta. Servirebbe un po’ di “ciccia” narrativa: forse un certo minimalismo molto inglese da solo non regge più di tanto. Dunque, l’ipocrita del titolo è uno scrittore di un certo successo, un tipo non simpatico, maschilista, un disastro come marito e come padre di Sophia. Quest’ultima è una giovane scrittrice teatrale, che mette in scena il suo lavoro che il padre va a vedere: per scoprire che la pièce parla proprio di lui, delle sue bassezze. Di qui il tormento dello scrittore, la descrizione di un pomeriggio tremendo, che poi è la metaforica immanenza della Vecchiaia.
Inframezzato a questa situazione di supplizio c’è il racconto di una lontana vacanza siciliana di Sophia con il padre, nella quale affioravano già i turbamenti di lei e lo squallore di lui, questo scrittore che, in sedicesimo, sembra un personaggio di Philip Roth in un quadro desolato molto inglese che, anche qui in sedicesimo, ricorda un po’ Ian McEwan. Nella parte “siciliana” sbuca anche un ragazzo, Anti, e per fortuna si evitano i soliti luoghi comuni sui maschi italiani; anzi, è lui a definire la giovane Inglesina «una villana»: punto a favore del romanzo.
Jo Hamya gioca molto con la sovrapposizione dei piani, la scrittura a scatti, anche divertente, tutto per mostrare il famoso conflitto generazionale che in questi termini (con l’ovvia centralità della tematica sessuale) si ripete sempre uguale da cinquant’anni e passa. Il tutto si svolge in una Londra afosa, pandemizzata e internizzata fino al clou del confronto-scontro tra figlia e padre: «Comincia a urlarle delle domande. Gli escono dalla bocca senza fatica, a volume sempre più alto, sempre più cariche di energia. Cosa dovrebbe significare quella pièce? Non poteva avvertirlo prima? Era davvero necessario metterla in scena? Non aveva pensato a quanto sarebbe stato sconvolgente per lui vederla deformare a quel modo il suo carattere e i suoi lavori? Sophia pensa che se riuscisse a adottare lo stesso tono, se fosse in grado di parare la raffica di domande che esce dal telefono, o se lui le si rivolgesse con calma, senza gridare…». Va dato atto a Jo Hamya della brillantezza. Ma aspettiamo un secondo romanzo.
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