L’archetipo della maternità riposa sulla fede che dare la vita non solo è un felice atto creativo, ma anche perenne impegno di custodia della vita generata. Ed è un archetipo che si confonde con la categoria ontologica dell’essere donna, con la femminilità animale, umana e trascendente. Iside è venerata col suo figlio divino, Horus. Maria di Nazareth è la giovane donna prescelta per generare Gesù, il figlio di Dio.
La madre che uccide la vita è snaturata. L’archetipo rovesciato rappresentato, nella mitologia greca, da Medea (ma madre mostruosa con Elettra è Clitmnestra, soprattutto nel testo riscritto da Hugo von Hofmannsthal per l’opera di Strauss).

E, poi, c’è la nostra vita di persone comuni, i nostri destini tremendamente ordinari che si snodano incoerenti e grevi, e che vanno portati e sopportati in mezzo agli archetipi: ci sono le madri che non hanno voluto esserlo, o che non vogliono più esserlo. Ci sono le singole persone, le singole donne che fronteggiano la legge tutta maschile della sovrapposizione tra maternità e femminilità. Ci sono le donne che uccidono i figli perché sono semplicemente creature devastate dalla fatica, dalla solitudine, dalla povertà, dall’insensatezza del proprio tragico sentimento di non essere adeguate. Perché nella vita degli uomini non esiste nulla che sia solo e soltanto luce, o erba fresca e leggera: frammiste avanzano le tenebre e in mezzo ai cespugli buoni cresce la zizzania.

Di questa verità semplice e sconcertante, di questa insopportabile maternità che rinnega se stessa, racconta con la sua penna affilata che scorre leggera mentre sferza, graffia, incide, Romana Petri nel suo libro edito da Giulio Perrone, Mostruosa maternità: “Non lo capiva bene quello che aveva dentro perché confondeva gioia con malinconia, e non sapeva dare forma di pensiero alle emozioni che le apparivano sempre come un gran groviglio di presentimento”. Raccolta di racconti che si apre e si chiude attorno al più noto caso di cronaca di omicidio perpetrato da una madre nell’ultimo quarto di secolo, vale a dire il delitto di Cogne. Perché la cronaca di certi fatti è talmente terribile da abitare per decenni e secoli l’immaginazione, gli incubi, i pensieri indicibili di una comunità con le sue diverse generazioni.

Perché la letteratura, che riedita il passato liberandosi del dettaglio ottuso della cronaca, è l’unico strumento per farsi strada in quell’indicibile degli accadimenti trascorsi segnati da una violenza agghiacciante: “Il passato non è mai la vita vera, è l’illusione fragile di ciò che abbiamo sognato senza riuscire a possederlo, è solo questo che persiste nella mente”. E perché in quel fatto si avviluppano tutte le contraddizioni irrisolte che ho richiamato sopra, in uno alla proiezione pubblica della loro percezione: alla maternità rinnegata dalla donna si oppone il giudizio di condanna inflessibile del mondo, incrinato frastagliato messo in crisi dallo sguardo e dalla lingua di Romana Petri. Maternità rinnegata per gelosia dell’amore dell’unico figlio verso il padre (nel racconto Tronco d’albero): “Perché chiunque lo direbbe, che male c’è se padre e figlio cercano di stare assieme? Lo direbbero tutti che è cosa normalissima. Ma per me no, commissario.  Per me non lo fu per niente”.

La maternità – inciampo di Nadežda verso un nuovo amore, Marco, che sembra sollevare la ragazza madre da un destino miserabile e nutre la sua speranza di essere desiderata e amata: “Aveva sperato di trovarselo sotto casa che l’aspettava. Ma quando arrivò davanti al portone sospirò delusa e salì le scale a passo lento, come fossero le infinite scale di certi infelici sogni” (Ogre). La maternità disperata di Violante, protagonista di Memorie nere, che impone una fine tragica contemporaneamente a sé e al figlio neppure adolescente: alla visione della mostruosa declinazione dell’amore materno nessuno resiste, e l’io narrante dirà, descrivendo una reazione comune (in alternativa alla condanna, ci sono la fuga e la rimozione collettiva dell’accaduto) che “Sono fuggiti tutti e chi, frastornato, rimaneva, veniva trascinato via con forza”.

Nell’anello narrativo che Petri costruisce, da rielaborazione a rielaborazione di fatti di cronaca esemplari del tema qui coraggiosamente prescelto e affrontato, si giunge alla fine per incontrare, nelle parole di un personaggio dal parrucchiere, la lente per l’esatta messa a fuoco: “E allora bisogna mettersi nei panni degli altri. Dedicarsi un po’ per giorno al pensiero del dolore degli altri (…) prima per un breve tratto, poi allungandolo un po’, insomma per arrivare fin dove possiamo”. Così, in Mostruosa maternità, l’empatia diventa la cifra totalizzante: informa lo stile che varia di racconto in racconto con naturalezza e semplicità dotate di una credibilità commovente; è l’origine dello sguardo; è l’oggetto stesso del racconto; è l’esorcismo contro le bocche spalancate delle crudeli, sanguinarie condanne massmediali.