È il “delitto Matteotti” della Russia di Putin e tutto il mondo delle democrazie è sotto shock per l’annuncio battuto ieri mattina dalle agenzie di stampa russe: “Alexei Navalny è morto”. Non è detto nel comunicato di che cosa Navalny sia morto, visto che quattro giorni fa i familiari lo avevano trovato benissimo.

L’ultimo eroe democratico che ancora si batteva contro il regime russo si trovava nel carcere “Orso Polare” nella regione artica di Kharp, dove era stato trasferito nel gennaio 2021 per impedirgli di far arrivare sui social i suoi messaggi. Ma una volta chiuso a Kharp sono stati i suoi avvocati a prendere in consegna le parole Navalny, che poi la rete del suo piccolo partito riversava sui social.

Ciò mandava in bestia Putin. Così, ha prevalso la proverbiale e cinica direttiva di Stalin: “Se c’è un problema, c’è un uomo. Se non c’è più l’uomo, non c’è più il problema”. Ma la Russia di Putin è da ieri investita da commenti sdegnati della comunità internazionale. Il presidente della Lettonia, Edgars Rinkevics, ha detto: “Alexei è stato brutalmente assassinato dal Cremlino”.

Il presidente francese Emmanuel Macron ha commentato con rabbia: “Nella Russia di oggi chi finisce nei gulag sono gli spiriti liberi”. La madre di Alexei, Liudmila Navalnaya, ha detto a Novaya Gazeta: “Non voglio condoglianze. Lo abbiamo visto il 12 febbraio, ed era sano e persino felice”.

Alexei seguitava a collegarsi ai social attraverso i suoi avvocati che oggi sono o morti, o in galera o latitanti. Nessuno sa cosa sia successo all’unico avversario di Vladimir Putin, il solo che aveva mantenuto in vita una opposizione ben organizzata con una rete fittissima. Dal Cremlino si sapeva che Putin era furibondo perché Navalny seguitava a collegarsi con i social leggibili in Russia.

Tutte le regole erano state applicate affinché le occasioni di comunicare col mondo esterno fossero prossime a zero. E invece, ancora parlava, rilasciava commenti feroci sulla guerra contro l’Ucraina e faceva sapere di essere vivo e combattivo.

L’uomo che è morto ieri in Siberia era un vigoroso quarantenne, tenace, intelligente, colto e che non si è mai fatto spaventare, sapendo che la sua esecuzione era certamente già decisa, come quelle dei suoi predecessori, fra cui Alexander Litvinenko per l’uccisione del quale il Procuratore Sir Robert Owen emise un verdetto di colpevolezza personale per Vladimir Putin. Il suo regime da 24 anni non prevede altro che elezioni plebiscitarie senza avversari, salvo quelli fantoccio autorizzati da una cosiddetta Commissione elettorale.

In questo modo le elezioni plebiscitarie riconfermano Putin al Cremlino senza alcun limite, grazie alle riforme costituzionali che lo hanno incoronato zar di tutte le Russie. Tutti i candidati si erano ritirati dalla competizione ed era rimasto in piedi, benché agli arresti, il solo Alexei Navalny.

Un primo tentativo di assassinarlo con sostanze tossiche fallì perché Navalny riuscì a raggiungere la Germania dove fu curato in un centro specializzato e guarito. Pensò di trasferirsi in Lettonia per organizzare un centro di resistenza politica contro l’ex tenente colonnello del KGB Vladimir Vladimirovic Putin. Ma il tentativo fu stroncato con un’operazione di pirateria aerea, nel più totale disprezzo per le leggi internazionali: l’aereo su cui viaggiava fu affiancato da due Mig russi e costretto ad atterrare.

Gli uomini del Fsb, cioè dell’ex KGB, salirono bordo e ne uscirono portandosi dietro Navalny ammanettato e caricato su un’auto nera dei servizi segreti. Fu portato in tribunale per difendersi da un’accusa di cui non esiste l’equivalente nei paesi civili: “estremismo”. La legge non dice quale genere di estremismo, perché parole, pensieri, scritti e atteggiamenti si equivalgono di fronte a un’accusa di estremismo, reato indimostrabile perché non prevede habeas corpus.

In un paese come la Russia quella parola significa soltanto oppositore del regime, così come ai tempi degli zar e dal 1917 sotto Lenin e poi Stalin, sotto Nikita Krusciov e durante la cosiddetta stagnazione di Leonid Breznev. Ma quando il nome dello scattante tenente colonnello Putin fu suggerito dagli alti ufficiali del KGB a Boris Yeltsin come suo assistente ed erede, tutto cominciò a cambiare in senso autoritario, ma non troppo visibile, tanto che molti leader europei come Tony Blair scommisero sul nuovo personaggio occidentalizzante (cavalcava a torso nudo con un cappello da cowboy, dal tedesco perfetto, che gli consentiva un rapporto personale con Angela Merkel).

La rottura di Putin con l’Occidente e il concetto di democrazia arrivò nel 2004 dopo anni di appeasement con gli occidentali specialmente dopo l’abbattimento delle Twin Towers, l’undici settembre del 2001. Quando gli americani poi ingaggiarono la loro sventurata guerra contro l’Iraq, Putin scoprì di averne abbastanza dell’Occidente e chiuse le porte dello sviluppo democratico nella Federazione Russa, avviata alla forma di una dittatura plebiscitaria fatta per un uomo solo al comando.

Fu allora che Alexander Navalny emerse come difensore della democrazia e dei diritti civili. Navalny, intanto, si presentò in pubblico in comizi volanti sempre affollati e dispersi dalla polizia benché perfettamente legali. La sua figura assunse un aspetto carismatico della speranza liberal democratica sulla scia delle speranze aperte dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

Durò poco: sull’unico vero dissidente si abbatterono processi penali che, mantenendolo in stato di accusa, gli impedirono progressivamente di parlare, mostrarsi, scrivere, esserci. Ma aveva allevato molti discepoli ancora vivi e attivi anche se nel terrore. Dei suoi cinque avvocati, tre sono scomparsi e due vivono rifugiati da qualche parte, tutti incriminati e ricercati dalla polizia. Ha parlato ieri soltanto la portavoce di Alexei Navalny, Kira Hamish, con parole straziate. Nel nome di Alexei, la lotta contro la tirannide e per la democrazia proseguirà.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.