Per più di un ventennio cercare sul web ha significato il mettersi a navigare: cliccare un link, aprirne un altro confrontando fonti era come perdersi nei rimandi e, proprio attraverso quel percorso, costruire conoscenza. Il link era davvero un legame: non solo tecnico, ma culturale, perché permetteva di passare da un testo all’altro e maturare uno sguardo critico.  Oggi quella pratica rischia di dissolversi con l’arrivo dell’intelligenza artificiale nei motori di ricerca: Google ha recentemente introdotto l’AI Overview, un riquadro che consegna direttamente una sintesi delle fonti. Non più un invito a esplorare, ma una risposta pronta da accettare così com’è. È – d’impatto – una comodità che rassicura ma segna anche l’avvento di una ricerca “ad occhi bendati”, dove l’algoritmo seleziona e noi, spesso, ci limitiamo ad accettare il primo risultato.

Gli effetti sono già visibili nell’attitudine appunto del “cercare” in rete: Wikipedia, emblema della conoscenza condivisa, continua sì a crescere con oltre sette milioni di voci nella sola versione inglese, cinquecento nuovi articoli al giorno e quasi cinque miliardi di parole complessive. L’enciclopedia online – dati di luglio 2025 –  ha registrato più di 4,7 miliardi di visite, con sessioni medie di oltre nove minuti; eppure, dietro questa vitalità, si nasconde una flessione significativa: negli ultimi tre anni gli utenti unici mensili sono diminuiti del 16 per cento, pari a circa duecento milioni di visitatori in meno, e il traffico complessivo si è ridotto di quasi un quarto. In buona sostanza, le risorse ci sono ma vengono “bypassate”. 

Il paradosso è evidente: le intelligenze artificiali si nutrono di Wikipedia e di fonti simili, ma gli utenti umani vi arrivano sempre meno. La piattaforma rischia così di trasformarsi in un serbatoio silenzioso, utile ad alimentare le sintesi algoritmiche ma sempre meno vissuto come luogo diretto di conoscenza. Parallelamente, molti editori registrano cali di traffico legati al fenomeno ribattezzato “Google Zero”, dove sempre più ricerche si esauriscono dentro il motore stesso senza che gli utenti aprano le pagine di destinazione. 

Ma Google non è l’unico attore in campo. Negli ultimi mesi sono nati o si sono rafforzati diversi motori di ricerca basati sull’intelligenza artificiale. Perplexity AI, forse il concorrente più diretto, punta su risposte concise con rimandi puntuali alle fonti e ha avviato un programma di revenue sharing con gli editori. You.com scommette sulla personalizzazione delle ricerche e su un’integrazione con app di terze parti, mantenendo una forte attenzione alla privacy. DuckDuckGo, già noto per la sua difesa dei dati personali, ha introdotto funzioni AI generative che non tradiscono la sua vocazione originaria. Accanto a questi, sono comparsi motori verticali specializzati: Consensus ed Elicit per la ricerca scientifica e accademica, Jasper per la scrittura creativa e il marketing.

Questo scenario dimostra che la sfida non riguarda solo Google, ma l’intero ecosistema della conoscenza digitale: se cambia il modo di cercare, la vera discriminante resta la capacità di selezionare e verificare ciò che emerge. La cultura digitale di cui abbiamo bisogno non consiste nel consumare risposte preconfezionate, ma nel coltivare la capacità critica di interpretare, confrontare e riconoscere le manipolazioni. Il quadro europeo DigComp 2.2 parla chiaro: l’alfabetizzazione ai dati e alle informazioni è uno dei pilastri della cittadinanza digitale. Significa quindi insegnare a studenti e cittadini che l’istantaneità non coincide con la verità, che la sintesi non sostituisce il percorso, che il sapere richiede tempo e confronto.

Alla fine la questione non riguarda solo i motori di ricerca, ma il nostro modo di pensare. Delegare a un algoritmo la selezione delle fonti significa rinunciare a una parte della nostra autonomia critica. La democrazia non vive di risposte pronte, ma di pluralità, di confronto, di tempo dedicato a capire. Difendere l’approfondimento non è un esercizio nostalgico bensì un dovere civile. Sta a noi decidere se restare utenti passivi che scorrono un riquadro, o cittadini consapevoli capaci di orientarsi nel mare aperto del sapere. Come scriveva T. S. Eliot in Little Gidding, “non smetteremo mai di esplorare. E alla fine di tutto il nostro esplorare torneremo là da dove siamo partiti e vedremo quel luogo come fosse la prima volta” (“We shall not cease from exploration/and the end of all our exploring”)

La democrazia digitale si gioca proprio in questa fedeltà al viaggio, più che nella rapidità della risposta.

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"l’occhio vede, la mente ordina, ma è il discernimento a stabilire il senso"