Riparliamo di giallo, il “genere unico” della nostra letteratura, specie d’estate. Quando leggo un giallo (o noir: uso impropriamente come sinonimi i due termini) tendo a distrarmi, e un poco ad annoiarmi. Non si tratta di snobismo. Dopo qualche pagina devo appuntarmi uno specchietto con i nomi dei personaggi e le loro relazioni (come neanche in Dostoevskij!). Ora, a una macchina narrativa così laboriosa, complicata, ingegnosa corrisponde generalmente una “rivelazione” banale, una verità finale di cui non ci importa quasi nulla (quel tale ha ucciso il tal altro per una eredità o per una segreta vendetta o per coprire un altro delitto o per una tara ereditaria…).

Tanta fatica per nulla! Perciò preferisco di gran lunga i film gialli, che durano al massimo due ore e – quando fatti bene, con sapienza artigianale – ci regalano brividi ed emozioni in uno spazio di tempo concentrato. Mi capita però di leggere dei gialli in cui percepisco minuscole – per me preziose – deviazioni dal genere, e dalla sua grammatica, nei quali insomma si insinua tra materiali molto convenzionali una meditazione alta sull’esistenza. Questo il caso di Nero lucano di Piera Carlomagno (Solferino), che ha inventato il personaggio della detective Viola Guarino, anatomopatologa forense di Matera, “ombrosa e bella d’inquietudine”, specialista della “scena del crimine”, scena che riesce ad interpretare grazie a un metodo conoscitivo basato sul paradigma indiziario, capace di risalire dai dettagli all’insieme (si pensi alla semeiotica medica, all’expertise nella attribuzione dei quadri, all’arte divinatoria): scienziata e strega, ha una doppia natura come molti abitanti nel mondo arcaico-contadino di Cristo si è fermato a Eboli (qui evocato), dove ogni cosa ha un doppio senso.

Ma tutto il romanzo è declinato al femminile (anche se su questo aspetto non possiamo svelare di più…). Fondamentale la figura della moglie “varesotta con accento antipatico” della prima più importante vittima, l’ingegner Brando Carbone, ossia “donna Leda”, che quando va in Basilicata è come se sprofondasse in un mondo allucinato di demoni e mostri (cui il carnevale lucano è una plastica rappresentazione), e viene irresistibilmente attratta dal sordido. Certo, Carlomagno ha inzeppato il romanzo di tutto: l’Eni e la Divina Commedia, la controcultura dei ‘70 e i marines, la massoneria e Carlo Levi, il bridge e la politica corrotta, Camus e Albino Pierro, le pale eoliche e “la criminalità che non spara”, la Madonna Nera e una colonna sonora che spazia da Miles Davis a Vasco Rossi. E lo ha anche disseminato di sostituti procuratori, poliziotti e carabinieri da fiction televisiva. Ma, come si dice, basta che funzioni. Tutto infatti serve all’inesausta affabulazione, se orchestrato con abilità.

Come accennavo quando leggo un giallo ho l’inclinazione a distrarmi dalla storia, mi cattura più l’atmosfera. Nero lucano riesce a creare una atmosfera fatta di pericolo e instabilità (perciò il jazz, genere della instabilità). Secondo Ortega y Gasset è proprio l’atmosfera lo specifico del genere del romanzo. Perfino la voce di Leda è “pericolosamente” gotica. Tutto oscilla, frana, rischia di fallire: “si sta al mondo come una cosa frangibile”. E poi in Basilicata “nulla è come appare”, una regione di pochi uomini “che vivono un’eterna guerra difensiva, arroccati tra mura immaginarie e confini discutibili”, la cui forza segreta risiede sottoterra, in una rete idrica che raccoglieva tutta l’acqua della Murgia (di qui la cisterna idrica ipogea di Matera). Dopo Brando ci saranno altre due vittime, con la testa spaccata in due da un’ascia. Altrettanti omicidi “di impeto”, senza furto, senza altri moventi.

Viola correndo in moto tra i calanchi sente che “quel paesaggio continuava a trasmetterle un senso di urgenza dell’abisso”. Perché “urgenza dell’abisso” e non, mettiamo, “paura dell’abisso”? Resta una espressione per più aspetti indecifrabile. Ma per capire questo passaggio – delicatissimo – dobbiamo rivolgerci a Pasolini, a un romanzo che guarda caso si intitola Petrolio, e in Nero lucano si parla di migliaia di tonnellate di petrolio disperso nel terreno in Val d’Agri. Carlo di Tetis, protagonista pasoliniano sdoppiato, cambia sesso diventando donna, e apprende che se il male è il possesso allora il bene è essere posseduti: si possiede solo una parte, mentre si è posseduti dal tutto. La passività è qui una esperienza cosmica che si libera nell’essere posseduti, anzitutto sessualmente. Torniamo a Leda, inquieta e sessualmente perversa, incline al sadomaso.

Durante un violento temporale le pare di risentire suo padre: “Cosa siamo noi rispetto all’infinito. Ecco, nulla. Eppure sempre l’aveva entusiasmata l’idea di essere in balia della natura…”. La sua è una risposta – certo deformata – a una questione cruciale. L’abisso è “urgente” perché l’unica cosa che il singolo può fare è abbandonarvisi, diventare un tramite, “essere in balia”. Su quell’abisso riposa la nostra esistenza e occorre riconoscerlo. Viola continuerà a fare le sue indagini e a scoprire la verità dei cadaveri, mentre altri Bastièn (l’amico idealista di gioventù dell’ingegner Brando, poi scomparso nel nulla) si opporranno ai “giganti del petrolio” e si impegneranno a difendere i diritti dei poveracci. Però il romanzo ci suggerisce, rievocando esplicitamente Camus, che la instabilità dell’esistenza, la sua stessa abissale insensatezza, va accettata per intero, senza illudersi di controllarla.