Ambrogio
Nuovo San Siro, la soluzione di Franco D’Alfonso: “Serve un modello simile ad Arexpo”
La vendita dello stadio di San Siro è slittata ufficialmente a settembre, come confermato dal sindaco Beppe Sala in Consiglio Comunale. Una decisione che apre uno scenario incerto e una corsa contro il tempo: il 10 novembre 2025 scatterà il vincolo storico-culturale dei 70 anni sul secondo anello del Meazza, rendendo impossibile l’abbattimento che Inter e Milan hanno in progetto.
La storia recente è emblematica: nel giugno 2024 WeBuild presenta uno studio di fattibilità per la ristrutturazione del Meazza, definito “straordinario” dal sindaco. Costo stimato: 300 milioni. Tre mesi dopo, il 13 settembre, Milan e Inter dichiarano che “San Siro non è ristrutturabile, o perlomeno non lo è a costi accessibili”. Si torna così al progetto iniziale del 2019: nuovo stadio e demolizione del vecchio. Come spiega Franco D’Alfonso, già assessore al Comune di Milano: «Fino al 2032 lo stadio di San Siro è in piedi perché l’UEFA ha già scritto che le partite dell’Europeo del 2032 si fanno a San Siro. Tradotto: vuol dire che ci spenderai 50 milioni di euro di bene pubblico per metterlo a posto e poi cosa fai? Lo tiri giù? Non è pensabile».
Esiste una via diversa da quella imposta dai fondi di investimento. «Lo stadio e il parcheggio vengono messi in una società che è 100% di proprietà del comune», propone D’Alfonso. «A quel punto fai un bando pubblico sulla base della legge partenariato pubblico privato. Un privato si offre di comprare il 49% della società e gestirà la società. Non mi paghi il 49% ma lo paghi in aumento di capitale, il che vuol dire che fornisci già alla società dei mezzi finanziari per ristrutturare lo stadio o rifarlo».
Questo modello, simile a quello Arexpo per l’area post-Expo, garantirebbe tempi certi e controllo pubblico. «La società può valutare cosa fare dello stadio, come valorizzarlo, come utilizzarlo e così come può valorizzare e utilizzare tutto il resto del territorio», continua D’Alfonso. «Se tu hai un socio pubblico al 50%, per te è una garanzia da un lato, dall’altro è una garanzia anche per me». I dati parlano chiaro: Milan e Inter già oggi pagano 10 milioni di euro all’anno (5 di affitto più 5 di lavori), mentre dai soli concerti nel 2023-2024 sono stati incassati 19 milioni. Il Meazza è stato valutato dall’Agenzia delle Entrate 197 milioni di euro. Ma i club chiedono sconti per bonifiche, riassetto urbanistico e perfino per lo smaltimento delle macerie da demolizione.
Nel frattempo, i ricavi da stadio dell’Inter hanno già superato i 100 milioni annui, con record nel derby di 10,6 milioni e in Champions League di 14,7 milioni per Inter-Barcellona. Il vecchio Meazza registra costantemente il sold out con 74mila spettatori, mentre il progetto iniziale dei club prevedeva una riduzione a 60mila posti. «Il calcio non è un business e basta», sottolinea D’Alfonso. «In Inghilterra Boris Johnson ha fatto una legge per cui tutti gli interventi di vendita delle proprietà e di interventi sugli stadi devono essere fatti con l’accordo dei tifosi organizzati. Siccome in Inghilterra il calcio è l’unico strumento di coesione sociale, anche Boris Johnson è intervenuto».
Il fatto che Inter e Milan stiano a Milano è sociale. Le proprietà americane considerano i club come asset finanziari da valorizzare e rivendere, ma per la città rappresentano molto di più. Come ammette Gerry Cardinale di RedBird: «Oggi ho capito che i tifosi in Europa contano. Non è così negli USA». Milano si trova di fronte a una scelta cruciale che determinerà non solo il futuro dello stadio, ma il rapporto stesso tra città e squadre di calcio. La fretta di chiudere entro novembre per evitare il vincolo monumentale rischia di far prevalere gli interessi dei fondi di investimento su quelli pubblici.
Come conclude D’Alfonso: «Il Comune deve inquadrare e utilizzare l’intervento dei privati in un quadro di riferimento più ampio. Deve garantire scelte più corrette, ben motivate, sostenibili, controllabili». La tradizione municipalista milanese richiede innovazione, non subordinazione alle logiche finanziarie. «Trattiamo con i fondi, ma trattiamo e non caliamo le braghe». Il tempo stringe, ma una decisione affrettata su un patrimonio del valore di quasi 200 milioni e su un simbolo identitario della città rischia di essere un errore storico che Milano pagherebbe per decenni.
© Riproduzione riservata







