Il caso giudiziario del secolo
Processo Scarpetta e D’Annunzio, al Mercadante va in scena la giustizia
Una rievocazione, una messa in scena, proprio come fa il teatro che racconta la vita. A distanza di oltre un secolo, rivive il processo che vide contrapposti Eduardo Scarpetta e Gabriele D’Annunzio. Era il 1908 e nel Tribunale di Castel Capuano si celebrò la causa tra il grande autore napoletano e il vate. L’attore e commediografo era accusato di aver rappresentato al Real Teatro Mercadante, il 3 dicembre 1904, la commedia Il figlio di Iorio, parodia della tragedia pastorale di D’Annunzio, La figlia di Iorio, e di averlo fatto arbitrariamente perché su quell’opera il vate aveva il diritto esclusivo. Fu la prima causa per plagio della storia. Eppure, le due opere erano diverse.
La figlia di Iorio era un dramma, Il figlio di Iorio, invece, ne era la parodia. Scarpetta, nelle sue pagine, sbeffeggiava D’Annunzio e la sua ridondanza, stravolgendo trama e senso dell’opera che divenne esilarante. Il commediografo voleva a tutti costi portare in scena Il figlio di Iorio, anche a dispetto delle critiche della moglie Rosa che lo invitava a non abbandonare il personaggio di Felice Sciosciammocca. Niente da fare: Scarpetta andò dritto per la sua strada, arrivando persino a incontrare D’Annunzio per ottenere la benedizione come già capitato quando incontrò Giacomo Puccini in occasione della versione parodistica de La bohème. L’autore e il poeta si incontrarono a Marina di Pisa. D’Annunzio lesse e rise di gusto leggendo l’opera. ma alla fine disse no. Nessun permesso, nessuna benedizione. Lo fece anche formalmente con un telegramma, ma era troppo tardi. Il figlio di Iorio andò in scena il 3 dicembre del 1904 e il pubblico sembrò apprezzare, ma una probabile claque dannunziana organizzò in platea una tale protesa da costringere Scarpetta a interrompere lo spettacolo. Fu solo l’inizio. Pochi giorni dopo, infatti, il direttore generale della Siae, Marco Praga, a nome della società e per conto del poeta, querelò Scarpetta per plagio e contraffazione. La vicenda toccò le corde dell’intellighenzia nazionale ed estera.
Molti gli intellettuali che si espressero a favore di uno o dell’altro contendente: Salvatore di Giacomo per D’Annunzio, Benedetto Croce a favore di Scarpetta. Era il primo processo che si teneva in Italia sul diritto d’autore e la fama dei personaggi, l’interesse dell’opinione pubblica e la consapevolezza che la sentenza avrebbe generato un precedente consistente portarono un grande impegno. Come quello dell’avvocato Carlo Fioravante, difensore di Scarpetta, che nella sua arringa, sottolineò l’importanza della parodia, definendola «Il bisogno imprescrittibile di ridere, il bisogno di chiedere un’ora di conforto e di tregua lungi dalle miserie e dalle amarezze ond’è stata, e sarà sempre, travagliata la vita».
La sentenza arrivò nel 1908, quando il Tribunale dichiarò il non luogo a procedere nei confronti di Scarpetta perché il fatto non costituiva reato. Un verdetto epocale che cambiò la storia dello spettacolo per sempre. Felice Sciosciammocca aveva vinto. «A querela, ‘o pruciesso, ‘a parudia, / tutt’ ‘e magagne e tutt’ ‘e nfamità… / veramente me l’avesse sunnato / e che mò, miez’a buie, me so scetato?», recitava il sonetto con cui Eduardo Scarpetta commentò la sentenza nel modo a lui più congeniale. Ieri, su iniziativa del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Napoli, della Camera penale, del Teatro di Napoli e dei Teatri Uniti quel processo è tornato a vivere sul palco del Teatro Mercadante,
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