La gara alla Mostra
Qui rido io, l’irresistibile Scarpetta di Martone e Servillo a Venezia

Il mare (della Laguna) bagna Napoli. Dopo Sorrentino, il concorso dice Mario Martone, altro figlio di cultura e tradizione partenopea. Cultura, che il regista omaggia a piene mani nel suo Qui rido io, terzo titolo nazionale in gara per il Leone d’oro. Che difficilmente vincerà, ma solo per la strada che ha scelto di imboccare e non certo per demeriti. Decidere di raccontare un tratto di storia – di vita e professionale – del commediografo, attore e maschera napoletana (Felice Sciosciammocca) baciato dal talento e dal successo, all’inizio del secolo XX, significa legarsi a doppio filo a un’area locale, che la giuria internazionale potrebbe non comprendere fino in fondo, in tutte le sue peculiarità. Così come il pubblico straniero. Per gli altri, Qui rido io è una gioia.
La biografia si addice a Martone, che dopo la letteratura – con Il giovane favoloso Giacomo Leopardi – indaga il teatro, la drammaturgia, la fama della ribalta. Che reclama fame di attenzioni e accondiscendenza, anche quando si smettono i costumi di scena. Scarpetta era capocomico, padre, marito, amante. Ma soprattutto padrone, per ognuno di questi suoi ruoli. Comunque, una eccezionale creatura di spettacolo. Da condannare, a distanza di un secolo abbondante? Non è la via, pur percorribile perché di attualità (si può scindere l’uomo dall’artista? I meriti professionali, cancellano i demeriti umani?), scelta da Martone. Che con una messa in scena tradizionale, ricca e solida (efficace lo sforzo produttivo di Indigo, Rai Cinema e Tornasol), presenta contesto e personaggi, da «romanzo. Ci siamo documentati, per poi discostarci da quanto avevamo studiato» dice Ippolita di Majo, sceneggiatrice con il regista e marito.
La loro scrittura non giudica. È il susseguirsi degli eventi che invita lo spettatore – senza però costringerlo – a riflettere su temi difficilmente filmabili, come lo snobismo intellettuale, la critica culturale, l’integrità del successo, i lasciti familiari, il diritto d’autore (lo scontro giudiziario con il vate D’Annunzio). E quello, più cinematografico ma sempre delicatissimo, della «paternità negata. Scarpetta aveva un figlio con Rosa, sua moglie. Ma pure con la sorella e con la nipote di Rosa» commenta Martone. Alla discendenza Scarpetta appartengono tanti attori («e che attori!»). I più memorabili sono i fratelli Eduardo («non parlerà mai di lui come padre, ma solo come artista»), Peppino («gli fu nemico feroce») e Titina De Filippo. «I figli che Scarpetta non riconoscerà mai. Era un patriarca amorale, capace di trasmettere il potentissimo seme del suo genio» continua Martone.
Appurato che il film non è soltanto il suo protagonista – pur immenso – ecco Toni Servillo, che interpreta Scarpetta: «L’ho immaginato come un animale. La sua brama di vivere, lo spinge a predare. Donne, teatro, testi, città, tournée. In uno scambio di vita e di teatro che si mischiano di continuo – spiega Servillo -. Scarpetta è irresistibile. Ed è una occasione raccontare un attore, che fa il suo mestiere per celebrare l’esistenza». Arriva il momento dei complimenti condivisi, tra l’autore e il suo protagonista. Amici da «più di quarant’anni. Scarpetta è un personaggio con cui io e Toni potevamo scambiarci tanto, della vita passata insieme». Toni risponde: «Mario ha fatto un affresco straordinario». Per tutti e due, l’esordio al cinema è stato Morte di un matematico napoletano, che nel 1992 vinse il Leone d’argento. Qui rido io è il regalo che l’uno fa all’altro. Alla proiezione stampa del mattino, la sala apprezza e applaude molto. E c’è quasi una ovazione sui titoli di coda, quando compaiono foto e didascalie per i tre De Filippo: Eduardo, Peppino e Titina. Senza scordarsi che nel ricco cast (un grande Gianfelice Imparato, Cristiana Dell’Anna, Iaia Forte, Maria Nazionale, Antonia Truppo, tutte bravissime) c’è anche il pronipote omonimo Eduardo Scarpetta. Già Renato Carosone in tv, nel film interpreta il bisnonno Vincenzo Scarpetta. Nel mondo dello spettacolo, è già degnissimo erede di cotanta famiglia. Molti altri spettatori potranno presto unirsi agli apprezzamenti del Lido. O anche, nel caso, dissentire. Qui rido io (il titolo, dal nome che questa «figura mitologica e primordiale» volle scritto sulla sua villa) esce domani per 01 Distribution.
L’altra faccia della medaglia è l’ucraino Vidblysk (Riflesso), di Valentyn Vasyanovych. L’opera, dentro e ai margini della guerra del Donbass (non c’è campo di battaglia, ma torture tremende e una complicatissima elaborazione psichica del conflitto) si è attirata i primi “buu” convinti. Calendario alla mano, ci si accorge essere un dissenso decisamente postdatato. Colpisce il 14esimo film in ordine di apparizione, sui ventuno del concorso. A conferma della bontà della Selezione. Lunghe sequenze a camera fissa che, con molta meno ironia, ricordano il cinema dello svedese Roy Andersson. Situazioni inquadrate in fastidiosa lontananza, quasi a volere alimentare un specie di distanziamento anti Covid tra schermo e pubblico.
Ma non siamo dalle parti della Rosa purpurea, e nessun personaggio fuoriesce dallo schermo. Peccato! Magari avrebbero potuto far luce, sul buio di chiarezza che affossa il film. Oggi la Sala Grande, per il concorso, ospita l’atteso Freaks Out di Gabriele Mainetti e il russo Kapitan Volkonogov Bezhal (Il capitano Volkonogov è scappato). L’horror Halloween Kills, ultimo episodio della celebre saga, porta spavento e riconoscenza. Tutta destinata alla sua (storica) protagonista: Jamie Lee Curtis, Leone d’oro alla Carriera.
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